Parte terza -il decalogo- : VII e VIII comandamento



Settimo comandamento

NON RUBARE

Spiegazione del comandamento
337 Fu antica consuetudine della Chiesa inculcare agli ascoltatori l'importanza e la natura di questo comandamento. Lo prova il rimprovero dell'Apostolo a coloro che premuniscono con ogni zelo gli altri da questi vizi, mentre essi ne sono stracarichi: "Tu che sei maestro agli altri, non insegni nulla a te stesso; vai predicando che non si deve rubare e rubi" (Rm 2,21). Insistendo su questo insegnamento, non solo veniva corretta una colpa frequente in quei tempi, ma erano anche sedati i turbamenti e le liti ed eliminate le altre cause dei mali che sogliono scaturire dal furto. Ma poiché anche il nostro tempo è infestato da simili reati e disordini, i parroci, sulle orme dei santi Padri e dei maestri della disciplina cristiana, tornino spesso su questo precetto, spiegandone con assidua diligenza l'importanza e il contenuto.
Anzitutto dedicheranno la loro cura a spiegare l'infinito amore di Dio verso il genere umano, poiché volle non solamente tutelare, quasi con un presidio, la vita, il corpo e la fama nostra con i due divieti: "Non ammazzare" e "Non commettere atti impuri", ma volle anche, con questo altro comandamento, "Non rubare", munire esternamente e difendere le nostre sostanze. Che cosa infatti potrebbero significare le parole suddette, se non possedessero la virtù dei precedenti precetti? Comanda cioè Dio che i nostri beni, costituiti sotto la sua tutela, non siano da alcuno violati o manomessi. Del singolare beneficio divino racchiuso nel precetto, dobbiamo essere particolarmente grati a Dio che ne è l'autore. Poiché ci è stato chiaramente indicato il modo migliore di nutrire e di esprimere la nostra gratitudine, che è non solo di accogliere apertamente la formulazione del precetto, ma di metterlo in pratica, i fedeli devono essere stimolati e infiammati a mostrare così il loro ossequio a esso.
Come i precedenti, anche questo precetto abbraccia due parti: quella, apertamente formulata, che proibisce il furto; l'altra, implicita nella prima, che impone di essere benevoli e generosi verso il prossimo. Parleremo anzitutto della prima: Non rubare.

1                    Natura e specie del furto

338 Si avverta subito che con il nome di furto non si intende semplicemente l'atto di sottrarre qualcosa di nascosto a un padrone che non sa e non vuole, ma anche l'azione di ritenere apertamente la roba altrui, contro la volontà del proprietario, a meno che non si voglia pensare che, proibendo il furto, si siano volute tollerare le rapine compiute a mano armata, mentre l'Apostolo afferma: "I rapinatori non conseguiranno il regno di Dio" (1 Cor 6,10). Anzi, il contatto e la solidarietà con questa gente devono essere, sempre, secondo l'Apostolo, scrupolosamente evitati (1 Cor 5,9s).
Sebbene la rapina costituisca una colpa più grave del furto, perché toglie dei beni con l'aggiunta della violenza contro la persona e sia quindi più ignominiosa, nessuno si meravigli che la formula del comando divino usi il termine più lieve di furto, tralasciando quello di rapina. Ciò è stato fatto con ponderazione, perché l'ambito del furto è più vasto di quello della rapina. Questa infatti può essere perpetrata solamente da chi disponga di forza e di mezzi. Del resto tutti comprendono come la proibizione di alcuni peccati più leggeri implichi il divieto di colpe più gravi del medesimo genere.
Il possesso e l'uso ingiusto delle cose altrui sono segnalati con vari nomi, secondo la diversità degli oggetti, sottratti a insaputa e contro la volontà dei padroni. Se un bene privato è tolto a un privato, l'azione è detta "furto"; se si sottrae qualcosa al bene pubblico, si compie "peculato"; traendo in schiavitù un uomo libero o un servo altrui, si commette un "plagio"; infine rubando un oggetto sacro, si cade nel "sacrilegio". È questa la forma più grave di questo delitto, che trae a privato godimento e a cupidigie riprovevoli beni categoricamente destinati, con disposizioni pie e sagge, al culto sacro, ai ministri della Chiesa e a usi di beneficenza.
La legge divina non proibisce solamente l'atto esterno del furto, ma anche l'intenzione e il proposito di rubare. Si tratta infatti di una legge spirituale, che mira all'anima, sorgente dei pensieri e dei propositi. Secondo la frase del Signore, in san Matteo: "Dal cuore partono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze" (M( 15,19).

2                    Gravità del furto

339 La gravità del crimine di furto emerge dalla stessa legge naturale e dal lume della ragione, essendo esso contrario alla giustizia, la quale vuole che a ciascuno sia attribuito il suo. La distribuzione e l'assegnazione dei beni, stabilite fin dagli inizi secondo il diritto delle genti, ratificate dalle leggi divine e umane, devono infatti essere rispettate, sicché ognuno conservi, quanto in linea di diritto gli spetta, se non vogliamo che sia sovvertita la società umana. Dice l'Apostolo: "I ladri, gli avari, gli ubriachi, i maldicenti, i rapaci non conseguiranno il regno di Dio" (1 Cor 6,10). Le numerose conseguenze del furto rivelano anch'esse l'enormità di questo delitto. Si vanno diffondendo, infatti, giudizi temerari e ingiusti su molti; scoppiano gli odi; sono alimentate le inimicizie; talora si giunge a gravissime condanne di innocenti.
Corre l'obbligo del resto, a tutti divinamente imposto, di dare completa soddisfazione al derubato. Come dice sant'Agostino, il peccato di furto non viene perdonato, se non viene restituita la refurtiva (Epist., 153). La restituzione, quando uno si sia abituato ad arricchirsi con la roba altrui, diviene compito molto arduo, come è facile arguire dall'esperienza altrui e dal buon senso proprio. Il profeta Abacuc lo asserisce esplicitamente: "Guai a colui che accumula beni non suoi! Egli va impegolandosi in un fango densissimo" (Ab 2,6). Dove fango denso è definito il possesso delle sostanze altrui, dal quale gli uomini solo a fatica possono emergere e uscire.
Tanti sono i generi di furto, che non è agevole segnalarli tutti. Basterà perciò quel che abbiamo detto intorno al furto e alla rapina, a cui può riportarsi in radice quel che ora diremo. I parroci usino la massima cura e diligenza nell'indurre il popolo a detestare con orrore questo perverso delitto.
Proseguiamo con le varie specie di questo vizio. Sono dunque ladri anche coloro che comprano oggetti rubati o ritengono cose comunque trovate, occupate, sottratte. Dice sant'Agostino: "Se non hai reso quel che trovasti, hai rubato" (Sermo, 178). Qualora poi sia assolutamente impossibile rinvenire il padrone, la roba trovata sia destinata alla beneficenza. Chi non sente di dover restituire, si rivela capace di fare man bassa di tutto, se lo potesse.

3                    Altri trasgressori di questo comandamento

340 Si rendono rei della medesima colpa coloro che usano frodi e discorsi ingannevoli nel comprare e nel vendere; il Signore punirà queste loro frodi. In questo genere di furti si mostrano più insopportabili e più malvagi quelli che vendono come genuine mercanzie adulterate e guaste, o che ingannano i compratori nel peso, nella misura, nella quantità e nelle norme della compravendita. Sta scritto infatti nel Deuteronomio: "Non avrai nel sacchetto diversi pesi" (25,13). E nel Levitico: "Non commettete ingiustizia alcuna nel giudicare, nel computare, nel pesare e nel misurare. Sia giusta la stadera e [sempre] eguali i pesi, giusto il moggio e identico il boccale [sostarlo]" (19,35).
Sta scritto pure in un altro luogo: "E abominevole presso il Signore chi usa due pesi; una stadera ingannevole non è buona" (Prv 20,23).
È anche furto manifesto quello degli operai e degli artigiani che ricevono tutta intera la mercede, senza prestare l'opera giusta e dovuta. Né poi si distinguono dai ladri i servi che siano custodi infedeli dei padroni e delle loro cose; sono anzi più detestabili degli altri ladri, che non hanno sottomano le chiavi; perché con un servo ladro nulla in casa rimane sigillato o chiuso.
Inoltre commettono furto quelli che carpiscono denaro con parole finte e simulate, o con falsa mendicità; anzi il peccato di costoro è più grave, perché aggiungono al furto la menzogna.
Si devono riporre nel numero dei ladri anche quelli che, dopo essere stati assunti a qualche ufficio privato o pubblico, fanno poco o nulla, trascurano il loro dovere, pur esigendo la paga e la ricompensa.
Sarebbe cosa lunga e, come abbiamo detto, difficilissima, trattare di tutti gli altri furti escogitati da una solerte avarizia, che conosce tutti i mezzi per fare denaro. Ci sembra quindi giusto parlare ora della rapina, che forma il secondo capitolo di questo genere di crimini. Prima però il parroco ammonisca il popolo cristiano di ricordare la sentenza dell'Apostolo: "Chi vuol farsi ricco, cade nella tentazione e nei lacci del demonio"
(Tm 6,9). Ne mai in alcun luogo gli cada dalla mente questo precetto: "Fate agli uomini quanto volete ch'essi facciano a voi" (Mt 7,12); tutti poi ricordino sempre il motto: "Non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te" (Tb 4,16; Lc 6,31).

4                    Chi si rende colpevole di rapina

341 Più esteso quindi è il campo della rapina. Poiché anche quelli che non danno la mercede dovuta agli operai sono rapinatori e san Giacomo li invita alla penitenza con queste parole: "Piangete, o ricchi, ululando sulle sciagure che vi piomberanno addosso" (Gc 5,1). E più sotto aggiunge la ragione per cui devono fare penitenza: "Ecco che la mercede degli operai che hanno mietuto i vostri terreni, da voi defraudata, grida e il grido è entrato nelle orecchie del Signore degli eserciti" (Gc 5,4). Questo genere di rapine è severamente condannato nel Levitico (19,13), nel Deuteronomio (24,14), nel libro di Malachia (3,5) e nel libro di Tobia (4,15). In questa classe di rapinatori sono inclusi coloro che non pagano o carpiscono e prendono per sé le gabelle, i tributi, le decime e simili cose, dovute ai rettori della Chiesa e ai magistrati.
Si rendono rei di questa colpa gli usurai inesorabili e crudeli nelle rapine, che derubano e dissanguano il misero popolo con le loro usure. Consiste l'usura nel ricevere un'aggiunta in più oltre il capitale dato, sia denaro o qualsiasi altra cosa, che possa esser acquistata o stimata per denaro. Così infatti sta scritto nel libro di Ezechiele: "Non riceverà usura e sovrabbondanza [di denaro]" (18,17) e il Signore dice nel Vangelo di Luca: "Date in prestito, senza aspettarne nulla" (6,35). Sempre fu considerato gravissimo questo delitto, anche presso i pagani, e odioso più d'ogni altro. Da ciò il motto: "Cos'è far usura? E che cosa è uccidere un uomo?"; poiché quelli che danno a usura vendono due volte la medesima cosa, o vendono quel che non esiste.
Commettono rapine anche i giudici corrotti dal denaro, che emettono giudizi venali e che, adescati con denaro e condoni, capovolgono le giustissime cause degli umili e dei diseredati.
Sono condannati per la medesima colpa di rapina quelli che frodano i creditori, i debitori fraudolenti e tutti coloro che, ottenuto un certo lasso di tempo per pagare, comprano mercanzie sulla parola propria o altrui e non mantengono la parola giurata. Il crimine di costoro è anche più grave, perché i mercanti, in conseguenza del loro inganno e della loro frode, vendono più cara ogni cosa, con grave danno di tutta la cittadinanza. A costoro sembra convenire il detto di David: "II peccatore prenderà in prestito e non pagherà" (Sal 36,21).
E che diremo di quei ricchi che troppo duramente esigono, da quelli che non hanno da pagare, quel che presero in prestito e, contro la proibizione di Dio, tolgono loro come pegno, anche le cose necessarie al mantenimento del loro corpo? Dice infatti Dio: "Se riceverai in pegno dal tuo prossimo il vestito, glielo restituirai prima del tramonto.
Esso infatti è l'unica cosa con cui si può coprire, è l'indumento della sua carne e non ha altro in cui possa dormire; se griderà giustizia a me lo esaudirò, perché sono misericordioso" (Es 22,26). La crudeltà della loro pretesa chiameremo dunque a buon diritto "rapacità" e "rapina".
Nel numero di coloro che vengono chiamati rapinatori dai santi Padri sono quelli che, durante la carestia, incettano frumento e fanno sì che per loro colpa il mercato sia più caro e più difficile. Ciò vale anche per tutto quel che riguarda il mantenimento e tutte le cose necessarie alla vita; a essi si riferisce quella maledizione di Salomone: "Chi nasconde le derrate, sarà maledetto fra le genti" (Prv 11,26).
I parroci dunque liberamente rimprovereranno costoro dei loro misfatti e più ampiamente spiegheranno le pene minacciate per questi peccati.

5                    Chi è obbligato alla restituzione

342 Ciò che abbiamo detto riguarda le cose proibite; ora veniamo a parlare delle cose comandate da questo precetto, tra le quali ha il primo posto la soddisfazione o restituzione; infatti il peccato non viene rimesso, se non si restituisce il maltolto. Ma, poiché non soltanto chi ha commesso un furto deve restituire il maltolto a colui che ha derubato, ma anche tutti quelli che parteciparono al furto sono obbligati alla restituzione, bisogna spiegare chi siano quelli che non possono sfuggire a quest'obbligo di soddisfare o di restituire.
Parecchie sono le categorie di siffatta gente. La prima è di coloro che comandano di rubare; essi sono non solo compagni e autori del furto, ma anche i più malvagi tra quel genere di ladri.
La seconda categoria, pari alla prima nella volontà sebbene inferiore negli effetti, e tuttavia da considerarsi allo stesso grado, è di quelli che, non potendo comandare, sono consiglieri e suggeritori di furti.
Terza categoria è di coloro che vanno d'accordo con i ladri.
Quarta, quella di coloro che partecipano al furto, dal quale traggono lucro (se si può chiamar lucro quel che li conduce agli eterni tormenti, qualora essi non si ravvedano); di loro così parla David: "Se vedevi un ladro correvi con lui" (Sal 49,18).
Quinta categoria di ladri sono coloro che, potendo impedire il furto, sono tanto lontani dall'impedirlo e dall'opporsi che, anzi, lasciano e permettono che esso avvenga.
Sesta categoria sono coloro che, sapendo con certezza che è stato commesso un furto e dove, non svelano la cosa, ma fingono di non saperla.
L'ultima categoria comprende tutti i complici, i custodi, i patrocinatori e quanti offrono loro un ripostiglio e un rifugio. Tutti costoro sono tenuti alla riparazione verso i derubati e devono esser caldamente esortati a compiere questo dovere indispensabile.
Né sono del tutto immuni da questa colpa neppure coloro che approvano e lodano il furto. Non sono poi alieni da questa medesima colpa i figli di famiglia e le mogli, che sottraggono di nascosto denaro ai padri e ai mariti.

6                    Bisogna inculcare la misericordia

343 In correlazione con questo comandamento sta la divina sentenza che noi dobbiamo aver compassione dei poveri e dei bisognosi; alleviarne le tristi condizioni e le angustie con i nostri mezzi e i nostri servigi. E siccome questo argomento deve esser trattato spessissimo e con la massima ampiezza, i parroci cercheranno nei libri di uomini santissimi come Cipriano, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nazianzeno e altri, che ottimamente scrissero intorno all'elemosina, ciò che loro occorre per soddisfare a quest'obbligo.
Infatti bisogna infiammare i fedeli all'ardore e all'alacrità nel soccorrere coloro che devono vivere della pietà altrui. Bisogna anche insegnare quanto sia necessaria l'elemosina, affinché tutti possiamo mostrarci veramente, in pratica e con l'opera nostra, liberali verso i bisognosi, con questa argomentazione validissima che, cioè, nel supremo giorno del giudizio. Dio avrà in abominio e condannerà al fuoco eterno coloro che tralasciarono o trascurarono gli obblighi dell'elemosina; invece loderà e introdurrà nella patria celeste coloro che benignamente trattarono gli indigenti.
L'una e l'altra massima furono pronunciate dalla bocca di nostro Signore Gesù Cristo: "Venite, benedetti del Padre mio, possedete il regno preparato per voi; via da me, maledetti, nel fuoco eterno" (Mt 25, 34s.41s).
Inoltre i sacerdoti citino i passi adatti a persuadere, per esempio: "Date e vi sarà dato" (Lc 6,38). Espongano la promessa di Dio, della quale non si può pensare niente di più ricco e magnifico: "In verità vi dico, nessuno ha abbandonato la casa... che non riceva il centuplo adesso in questo mondo e nel mondo a venire la vita eterna" (Mc 10, 29.30).
Aggiungano quel che fu detto da Cristo: "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Lc 16,9).

7                    Vari modi di esercitare la misericordia

344 Espongano, poi, le varie specie di questo dovere, in modo che chi non può largire ai bisognosi tanto da sostentare la vita, almeno conceda prestiti al povero, secondo il precetto di Cristo nostro Signore: "Date in prestito, senza aspettarne nulla" (Lc 6,34). Il santo re David così esprime la felicità di chi agisce in tal modo: "Beato l'uomo che ha misericordia e da in prestito" (Sal 111,5). È degno poi della cristiana pietà, quando non ci sia possibilità di beneficare altrimenti quelli che per vivere hanno bisogno della pietà altrui, esercitare un lavoro con le proprie mani, evitando così anche l'ozio, per poter alleviare l'indigenza dei bisognosi. A ciò esorta tutti l'Apostolo con il suo esempio, nella lettera ai Tessalonicesi, con le parole: "Voi stessi sapete quanto sia necessario imitarci" (2 Ts 3,7). Parimenti agli stessi: "Attendete a star quieti, ad adempiere il vostro ufficio e a lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ammaestrati" (1 Ts 4,11 ).
E agli Efesini: "Chi rubava, ormai non rubi più; piuttosto lavori operando con le proprie mani quel che è buono, per avere di che dare il necessario a chi soffre" (Ef 4,2.8).
Bisogna anche curare la frugalità e aver riguardo ai beni altrui, per non essere di peso ne molesti agli altri. Questa temperanza, certo, appare in tutti gli Apostoli, ma soprattutto splende in san Paolo di cui è quel motto ai Tessalonicesi: "Ricordatevi, o fratelli, del nostro lavoro e della nostra fatica: lavorando notte e giorno, per non aggravare nessuno di voi, vi predicammo il Vangelo di Dio" (1 Ts 2,9). E lo stesso Apostolo in un altro luogo afferma: "Con fatica e con sudore, lavorando notte e giorno, per non aggravare nessuno di voi" (2 Ts 3,8).

8                    Bisogna tener lontani i cristiani da queste colpe

345 Ma perché il popolo fedele si tenga lontano da tutto questo genere di nefandi delitti, sarà compito dei parroci rintracciare nei Profeti e prendere dagli altri Libri divini le parole di abominio dei furti e delle rapine e le terribili minacce fatte da Dio a coloro che commettono quelle colpe. Esclama il profeta Amos: "Ascoltate, voi che calpestate il povero e fate perire i miseri della terra, dicendo: "Quando passerà il mese e venderemo le mercanzie? Allora potremo diminuire la misura, aumentare il siclo e usare stadere ingannevoli" " (Am 8,4.5). Sono dello stesso tenore molte espressioni in Geremia (7,8s), nei Proverbi (21,6) e nel Siracide (10,9). Non c'è poi da dubitare che l'origine dei mali, da cui è oppressa questa età, sia in gran parte compresa in queste cause.
Ma perché i cristiani s'avvezzino a trattare con tutti i mezzi imposti dalla liberalità e dalla benignità i bisognosi e i mendichi, la qual cosa si riferisce all'altra parte del comandamento, i parroci esporranno i grandissimi premi che Dio promette in questa vita e nell'altra agli uomini benefici e munifici.

9                    Bisogna respingere le scuse ingiuste

346 Ma poiché non manca chi, anche a proposito di furto, cerca di scusarsi, costui deve essere ammonito che Dio non accoglie nessuna scusa del suo peccato; che, anzi, il suo peccato non solo non sarà alleviato da quella giustificazione, ma maggiormente accresciuto.
Ecco le insopportabili pretese di nobili che credono di diminuire la propria colpa affermando di non essere discesi a toglier l'altrui per cupidigia o avarizia, ma per conservare il grado della famiglia e degli antenati, la cui stima e dignità andrebbero in rovina, se non fossero sostenute dall'aggiunta delle sostanze altrui. A costoro bisogna strappare questo pernicioso errore e dimostrare nello stesso tempo che una sola è la maniera di conservare e aumentare le ricchezze, la potenza e la gloria degli antenati: ubbidire alla volontà di Dio e osservare i suoi precetti. Disprezzati questi, le ricchezze
formate e conservate con ogni cura son distrutte; i re medesimi, precipitati dal soglio regale e dal sommo fastigio, sono umiliati e al loro posto sono, talvolta, chiamati per volere divino, uomini infimi, che spesso furono da loro grandemente odiati.
È incredibile quanto si sdegni Dio con costoro; ne è testimone Isaia, in cui si trovano queste parole di Dio: "I tuoi prìncipi furono infedeli e alleati di ladri; tutti amano i doni e corteggiano le retribuzioni. Per questo il Signore Iddio degli eserciti e del forte d'Israele dice: "Mi consolerò dei miei nemici e mi vendicherò dei miei avversari; volgerò la mia mano a te e purificherò la tua scoria nel fuoco" " (Is 1, 23-25).
Non manca chi adduce come pretesto non lo splendore e la gloria, ma il proprio mantenimento e la possibilità d'una vita più comoda e agiata. Bisogna rintuzzare costoro e mostrar loro quanto empi siano le loro azioni e i loro discorsi, mentre preferiscono qualche comodità alla volontà e gloria di Dio, che noi offendiamo in modo straordinario trascurando i suoi precetti. Ma quale comodità mai può esservi nel furto, a cui tengon dietro i più gravi incomodi? "Nel ladro infatti", dice il Siracide, "è confusione e pentimento" (5,17). Ma ammesso pure che ciò non sia, è certo che il ladro disonora sempre il nome divino, ripugna alla santissima volontà sua e disprezza i suoi salutari precetti; da questa fonte deriva ogni errore, ogni malvagità, ogni empietà.
Che dire poi dei ladri che affermarono di non peccare affatto, perché tolgono qualcosa a uomini ricchi e ben forniti, che da questo furto non soffrono danno, anzi neppure se ne accorgono? Infelice, certo, e pestifera è tale difesa.
Qualcuno crede che debba essere accolta la sua scusa, ossia la propria consuetudine a rubare, in modo che difficilmente potrebbe desistere da quell'intenzione e da quell'azione. Costui, se non ascolta l'Apostolo che dice: "Chi rubava, ormai non rubi più" (Ef 4,28), voglia o non voglia, dovrà prendere anche la consuetudine degli eterni supplizi.
Alcuni si scusano di avere rubato, essendosene data l'occasione; va infatti sulla bocca di tutti quel trito proverbio: l'occasione fa l'uomo ladro. Bisogna toglier a quelli che così pensano questa malvagia opinione e insegnar loro che si deve resistere alle cattive passioni. Poiché se si dovesse continuamente compiere quello che c'induce a fare la passione, qual misura, qual limite metteremo ai delitti e alle nefandezze? Grandemente invereconda è dunque quella difesa o piuttosto confessione di somma cupidigia e di ingiustizia. Poiché chi dice di non peccare perché non ha occasione di peccare, confessa quasi nello stesso tempo che peccherà ogni volta che gli se ne offrirà il destro.
Alcuni dicono di rubare per vendicarsi del furto loro fatto da altri. A essi bisogna rispondere che prima di tutto non è lecito vendicare le ingiurie; in secondo luogo, nessuno può esser giudice in causa propria; quindi molto meno si può concedere che essi infliggano ad altri la pena di colpe commesse contro di loro.
In ultimo, alcuni credono abbastanza difeso e scusato il furto perché, essendo oppressi da debiti, non se ne possono liberare altrimenti che rubando. Con costoro bisogna ragionar così: non c'è debito più grave e da cui più sia oppresso il genere umano, di quello che ricordiamo ogni giorno nella divina preghiera: "Rimetti a noi i nostri debiti" (Mt 6,12); perciò è proprio da stolti preferire di essere debitori verso Dio, cioè peccare, per pagare quel che si deve agli uomini. Infatti è molto meglio essere gettati in carcere, che venir condannati agli eterni supplizi dell'inferno, essendo molto più grave esser condannato dal tribunale di Dio che da quello degli uomini. Queste persone devono, con suppliche, chiedere aiuto e pietà a Dio, da cui possono ottenere quel che loro occorre.
Non manca poi chi, per scusare il furto, ricorre ad altre ragioni, che però ai parroci prudenti e diligentissimi del loro ufficio non sarà difficile ribattere in modo da poter avere un giorno "Un gregge zelante nelle buone opere" (Tt 2,14).

Ottavo comandamento

NON DIRAI CONTRO IL PROSSIMO TUO FALSA TESTIMONIANZA

10                Necessità di una frequente spiegazione di questo comandamento

347 Quanto sia non solo utile, ma anche necessaria un'assidua spiegazione di questo comandamento e un'assidua esortazione a questo dovere, lo ricorda san Giacomo con queste parole: "Se uno non sbaglia nel discorrere, è uomo perfetto" e ancora: "La lingua è un piccolo membro, eppur capace di grandi effetti. Ecco qual grande selva incendia un così piccolo fuoco! " (Gc 3,2.5) con quel che segue, sempre a questo proposito.
Siamo ammoniti così di due cose: primo, che molto ampiamente è diffuso questo vizio della lingua, il che è confermato anche dalla sentenza del Profeta: "Ogni uomo è mendace" (Sal 115,11) di modo che questo è quasi il solo peccato che sembra estendersi a tutti gli uomini; secondo, che da esso derivano mali innumerevoli, poiché spesso per colpa d'un maldicente si perdono la ricchezza, la fama, la vita, la salvezza eterna, tanto di colui che è offeso, perché non può sopportare pazientemente le ingiurie e cerca di vendicarle con animo inconsiderato, come di colui che offende, perché, per un inconsulto pudore o spaventato dalla falsa opinione della stima pubblica, non può indursi a dare soddisfazione all'offeso.
Perciò bisognerà ammonire i fedeli di ringraziare quanto più possono Dio di questo salutare comandamento che ordina di non dire falsa testimonianza: comandamento che non solo ci vieta di offendere gli altri, ma con la sua osservanza impedisce anche che siamo offesi dagli altri.

11                Le due parti del comandamento

348 Nella spiegazione di questo comandamento dobbiamo procedere con lo stesso metodo e per la stessa via che usammo per gli altri, distinguendo cioè in esso due leggi: una che proibisce di dire falsa testimonianza, l'altra che comanda di pesare le nostre parole e le nostre azioni con la verità, eliminando ogni simulazione e menzogna. L'Apostolo ammonì gli Efesini di questo dovere con le parole: "Operando la verità nella carità, cresciamo in lui [cioè in Cristo] in ogni cosa" (Ef 4,15).
La prima parte di questo comandamento con il nome di falsa testimonianza indica egualmente ciò che si dice in bene o in male di qualcuno, sia in giudizio, sia fuori: tuttavia proibisce specialmente la falsa testimonianza resa in giudizio da chi ha giurato. Infatti il testimonio giura nel nome di Dio, perché il discorso di chi fa tale testimonianza, interponendovi il nome divino, ha moltissima credibilità e importanza. Essendo questa falsa testimonianza pericolosa, è proibita in modo speciale. Infatti neppure il giudice può respingere testimoni che giurino, se non siano esclusi da legittimi motivi o sia manifesta la loro malvagità e perversità, soprattutto dal momento che la Legge divina comanda che per bocca di due o tre testimoni si stabilisca ogni cosa (Dt 19,15; Mt 18,16).
Ma perché i fedeli intendano chiaramente il comandamento, sarà loro spiegato che cosa s'intende con la parola "prossimo", contro il quale non è in nessun modo lecito dire falsa testimonianza. Come è esposto dalla dottrina di Cristo (Lc 10,29), è prossimo chiunque ha bisogno dell'opera nostra, sia egli parente o estraneo, concittadino o forestiero, amico o nemico; non è infatti permesso credere lecita la falsa testimonianza contro i nemici, che pure dobbiamo amare per comando di Dio Signor nostro.
Anzi, poiché ognuno in certo modo è prossimo a se stesso, non è lecito dire falsa testimonianza contro se stessi; coloro che così fanno, imprimendosi da sé stessi una nota d'ignominia e di turpitudine, offendono sé e la Chiesa di cui son membri, in quello stesso modo in cui i suicidi nuocciono alla collettività dei propri concittadini. Infatti sta scritto in sant'Agostino: "A chi non consideri bene, potrebbe sembrare che non sia proibito essere falso testimonio contro se stesso, giacché nel comandamento fu aggiunto: contro il prossimo tuo. Ma nessuno, dicendo falsa testimonianza contro se stesso, creda di essere immune da questa colpa, poiché chi ama il prossimo deve prendere questa norma dall'amore di se stesso".
Dal momento che è proibito danneggiare il prossimo con falsa testimonianza, nessuno però creda che sia lecito il contrario, cioè procurare, spergiurando, qualche utilità o vantaggio a chi ci sia congiunto per natura o per religione. Nessuno infatti deve dire menzogne o cose vane e tanto meno fare uno spergiuro. Perciò sant'Agostino, scrivendo sulla menzogna a Crescenzio, ammonisce, secondo la sentenza dell'Apostolo, che la bugia è da annoverarsi tra le false testimonianze, quand'anche si dica per falsa lode di qualcuno. Infatti, spiegando quel passo paolino che dice: "Noi saremmo falsi testimoni di Dio, giacché abbiamo testimoniato di Dio, questo: che egli risuscitò Cristo, che invece non sarebbe risuscitato, se fosse vero che i morti non risorgono" (1 Cor 15,15), egli osserva: "L'Apostolo chiama falsa testimonianza il mentire intorno a Cristo e a tutto ciò che si riferisce a sua lode".
Spessissimo poi accade che chi favorisce l'uno osteggi l'altro e la causa dell'errore si attribuisce certamente al giudice, che talvolta, indotto da falsi testimoni, stabilisce ed è costretto a giudicare contro il diritto, con vera ingiustizia. Accade anche che chi ha vinto in giudizio una causa per la falsa testimonianza di qualcuno e se la passa impunemente, esultando dell'iniqua vittoria, si avvezzi a corrompere e a usar falsi testimoni, per opera dei quali spera di poter giungere a quel che brama. Ora questo fatto è, prima, una cosa gravissima per il testimone stesso che viene riconosciuto falso e spergiuro da colui stesso che, con il suo giuramento, ha soccorso e aiutato; poi, giacché l'inganno gli riesce come desidera, egli prende ogni giorno maggior pratica e abitudine all'empietà e all'audacia. Come dunque sono proibite le menzogne, le bugie e gli spergiuri dei testimoni, così tutte queste colpe sono proibite negli accusatori, negli accusati, nei patrocinatori, sostenitori, procuratori e avvocati e infine in tutti quelli che costituiscono i tribunali.
In ultimo. Dio proibisce, non solo in giudizio, ma anche fuori, ogni testimonianza che possa recare ad altri incomodo o danno. Sta scritto, infatti, nel Levitico, dove si ripetono questi comandamenti: "Non farete furto; non mentirete, ne alcuno ingannerà il suo prossimo" (19,11). Così nessuno può dubitare che ogni menzogna, proibita con questo comandamento, sia condannata da Dio e questo molto apertamente lo testimonia David così: "Distruggerai tutti quelli che dicono menzogna" (Sal 5,7).

12                Altri peccati proibiti con questo comandamento

349 E proibita da questo comandamento non solo la falsa testimonianza, ma anche la detestabile mania e abitudine di denigrare gli altri. E incredibile quante sciagure gravi, pericolose e cattive derivino da questa peste. Il vizio di parlare con maldicenza e con offesa degli altri occultamente, spesso è rimproverato dalle divine Scritture: "Con il maldicente", dice David, "non mi sedevo a mensa" (Sal 100,5) e san Giacomo: "Non vogliate denigrarvi a vicenda, o fratelli" (Gc 4, 11).
Né abbondano soltanto i richiami della Sacra Scrittura, ma anche gli esempi dai quali è dimostrata la gravità della colpa. Aman accese tanto Assuero contro i Giudei con la falsa accusa di delitti, che questi comandò d'uccidere tutti gli uomini di quel popolo (Est 13,3ss). E piena la Storia Sacra di simili esempi, con il ricordo dei quali i sacerdoti cercheranno di tener lontani i fedeli da una colpa tanto malvagia.
Affinché si capisca la gravità di questo peccato con cui si denigrano gli altri, bisogna ricordare che non soltanto con l'usare la calunnia, ma anche con l'accrescere e amplificare le colpe si lede la stima di cui gode un uomo. E quando uno commette occultamente un'azione che, se risaputa, sarebbe nociva alla sua fama, chi la divulga dove, quando, o a chi non sarebbe necessario, a buon diritto è detto denigratore e maldicente. Fra tutte le denigrazioni, nessuna è più grave di quella di denigrare la dottrina cattolica e i suoi difensori. Cade in codesta colpa chi colma di lodi gli autori di malvagio dottrine e di errori.
Né sono separati dal numero ed esenti dalla colpa di costoro quelli che, prestando orecchio ai detrattori e maldicenti, non riprendono i calunniatori, ma volentieri li approvano. Infatti, se sia più condannabile il calunniare o l'ascoltare un calunniatore, non si saprebbe dire facilmente, come scrivono san Girolamo e san Bernardo; non ci sarebbe infatti chi calunnia, se non ci fosse chi ascolta il calunniatore.
Appartengono alla medesima razza quelli che, con le loro arti, separano gli uomini e li spingono l'uno contro l'altro e si dilettano molto di suscitare discordie, in modo che, rompendo, con finti discorsi, strettissime unioni e alleanze, inducono uomini amicissimi a perpetue inimicizie e li spingono alle armi. Questa peste, il Signore l'ha in abominio: "Non sarai infamatore ne sobillatore in mezzo al popolo" (Lv 19,16). Tali erano molti dei consiglieri di Saul, che cercavano di alienare il suo favore da David e incitare il re contro di lui.
Commettono infine questo peccato gli uomini lusingatori e adulatori che, con blandizie e lodi simulate, si insinuano nelle orecchie e nell'animo di coloro di cui ricercano il favore, il denaro e gli onori, chiamando male il bene e bene il male, come scrive il Profeta (Is 5,20). David ammonisce di tener lontani costoro e di cacciarli dalla nostra società con queste parole: "II giusto mi rimprovererà nella sua misericordia e mi sgriderà; ma l'olio del peccatore non ungerà il mio capo" (Sal 140,5). Quantunque, infatti, costoro non sparlino affatto del prossimo, tuttavia gli nuocciono moltissimo, giacché essi, con il lodare i suoi peccati, gli offrono una ragione per perseverare nei vizi finché vive.
Però in questo genere di vizi è peggiore l'adulazione usata per la calamità e la rovina del prossimo. Così fece Saul che, desiderando gettare David in preda al furore e al ferro dei filistei perché fosse ucciso, lo blandiva con queste parole: "Ecco la mia figlia maggiore Merob, te la darò per moglie; sii soltanto guerriero valoroso e combatti le guerre del Signore" (1 Sam 18,17). Così fecero i Giudei quando, con insidioso discorso, parlarono con Cristo Signore: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via del Signore secondo la verità" (Mt 22,16; Mc 12,14).
Molto più pericoloso, poi, è il discorso che gli amici, gli affini e i congiunti fanno talvolta per illudere quelli che, colpiti da malattia mortale, sono ormai in punto di morte. Affermano che egli non è in imminente pericolo; lo consigliano a stare lieto e allegro e lo distolgono dalla confessione dei suoi peccati; infine tengono lontano il suo animo da ogni cura e pensiero dei supremi pericoli, nei quali soprattutto si trova.
Perciò bisogna fuggire ogni sorta di menzogne, ma specialmente quelle dalle quali uno può ricevere grave danno. Colma d'empietà è la menzogna quando si mente contro la religione o in cose di religione. Ma Dio si offende gravemente anche con le ingiurie e le calunnie contenute nei libelli chiamati infamanti e per altri simili oltraggi. Inoltre, cadere nella menzogna scherzosa o ufficiosa, quand'anche nessuno ne abbia danno o vantaggio, è in generale cosa da non farsi, come ammonisce l'Apostolo: "Deponendo la menzogna, dite la verità" (Ef4,25). Infatti, da ciò nasce una grande inclinazione a menzogne più frequenti e più gravi. Dalle menzogne dette per scherzo gli uomini prendono l'abitudine di mentire, in modo che vengon tenuti nella considerazione pubblica come non veritieri; perciò han bisogno di giurare continuamente affinché il loro discorso sia creduto.
Per finire, nella prima parte di questo comandamento è condannata la simulazione e non solo le parole dette con simulazione, ma anche le azioni cosiffatte partecipano di questa colpa. Infatti, tanto le parole che le azioni sono indizi e segni di quel che è nell'intimo d'ognuno. Perciò il Signore, redarguendo spesso i Farisei, li chiama ipocriti.
E ciò basti per la prima parte del comandamento, che riguarda quanto esso proibisce.

13                Che cosa comanda il Signore riguardo ai giudizi forensi

350 Ora esporremo che cosa comandi il Signore nell'altra parte del comandamento. Il contenuto e l'espressione del precetto mirano a questo: che i giudizi forensi si facciano con giustizia e secondo le leggi, che gli uomini quindi non si arroghino, ne usurpino tali giudizi; non è lecito infatti giudicare un servo altrui, come scrive l'Apostolo (Rm 14,4), affinché non diano la sentenza in una causa loro sconosciuta, come fece il consesso di sacerdoti e scribi che giudicò santo Stefano (At 6,12; 7,1); peccato che fu pure commesso dai magistrati di Filippi, ai quali l'Apostolo fece dire: "Dopo averci battuto pubblicamente, senza processo, romani come siamo, ci hanno messo in prigione e ora ci
mandano via di nascosto" (At 16,37). Non condannino gli innocenti, né assolvano i colpevoli; non si lascino smuovere dal denaro, dai favori, dall'odio o dall'amore. Cosi infatti Mosè ammonisce gli anziani, che egli aveva eletto giudici del popolo: "Giudicate secondo giustizia sia l'imputato cittadino sia forestiero. Non ci sia differenza di persone; ascolterete il piccolo e il grande: non guarderete in faccia a persona, perché giudicare spetta a Dio" (Dt 1,16).
Quanto agli accusati e ai colpevoli. Dio vuole che confessino la verità quando sono interrogati secondo la formula giudiziaria. Infatti tale confessione è come una testimonianza e un riconoscimento della lode e gloria di Dio, secondo le parole di Giosuè che, esortando Achan a confessare il vero, disse: "Figlio mio, da gloria al Signore Dio d'Israele" (Gs 7,19).
Ma siccome questo comandamento riguarda soprattutto i testimoni, anche di essi il parroco tratterà con diligenza, poiché il comandamento non solo vieta la falsa testimonianza, ma impone anche di dire la verità. Nelle cose umane infatti si fa grandissimo uso di una testimonianza veridica; sono, infatti, innumerevoli le cose che ignoreremmo se non le conoscessimo per attestazione di testimoni. Per Cui nulla è così necessario come la verità delle testimonianze in quello che non possiamo sapere da noi e che tuttavia non dobbiamo ignorare. Intorno a ciò abbiamo la celebre sentenza di sant'Agostino: "Chi nasconde la verità e chi dice menzogna, sono ambedue colpevoli; il primo perché non vuoi giovare ad altri; il secondo perché desidera nuocere". È lecito tacere talvolta la verità, ma fuori del tribunale; in giudizio, quando il testimonio è interrogato nelle forme rituali dal giudice, deve svelare completamente la verità. Qui tuttavia badino i testimoni a non affermare per vero quel che non sanno sicuramente, troppo fidandosi della propria memoria.
Restano i patrocinatori delle cause e gli avvocati, tanto di difesa quanto di accusa. Quelli non facciano mancare l'opera e il patrocinio loro nelle circostanze necessario, venendo benignamente in aiuto ai bisognosi, ma non prendano a difendere cause ingiuste, né allunghino le liti con i cavilli, né le alimentino con l'avarizia. La mercede dovuta al loro lavoro e alla loro opera, la fisseranno con giustizia ed equità.
Detti avvocati, poi, sia nel foro civile che nel penale, siano ammoniti a non creare un pericolo con ingiuste accuse, per amore o per odio verso qualcuno, o per passione. Infine questo comando fu dato da Dio a tutti gli uomini buoni: nelle adunanze e nei colloqui parlino sempre veracemente e secondo l'animo loro; non dicano nulla che possa nuocere alla stima di altri, neppure a proposito di coloro dai quali essi credono di essere danneggiati e offesi; tenendo sempre presente che deve esistere con essi tale solidarietà e familiarità da risultare membra del medesimo corpo.

14                Abiezione e turpitudine della menzogna

351 Perché i fedeli si possano guardare meglio dal vizio della menzogna, il parroco spieghi la grande abiezione e turpitudine di questa colpa. Nelle Sacre Scritture il demonio è chiamato padre della menzogna (Gv 8,44), che, non essendo stato saldo nella verità, è menzognero e padre della menzogna. Aggiungerà, per estirpare un così grande vizio, i mali che tengono dietro alla menzogna e poiché sono innumerevoli mostrerà in essa la fonte e l'origine dei disordini e delle sciagure. Primo, spieghi in quale grave offesa a Dio e in quanto suo odio venga a cadere l'uomo falso e menzognero e lo illustri con l'autorità di Salomone: "Sei sono le cose che il Signore odia e la settima aborre l'anima sua: occhi superbi, lingua menzognera, mani che versano sangue innocente, cuore che macchina pessime intenzioni, piedi veloci nel correre al male, testimonio menzognero che proferisca cose false" (Prv 6,16-19), con quel che segue.
Chi, dunque, potrebbe assicurare a chi è in odio speciale a Dio, di non esser tormentato dai più gravi tormenti? Inoltre, che cosa c'è di più impuro e di più turpe, come dice san Giacomo, che usare quella medesima lingua, con cui lodiamo Dio Padre, per dir male degli uomini, fatti a immagine e somiglianza di Dio, cosi come se una fonte da un medesimo foro facesse scaturire acqua dolce e amara? (Gc 3,9.11). Quella lingua, infatti, che prima dava lode e gloria a Dio, poi lo colpisce, per quanto le è possibile, di vituperio e di disdoro, mentendo. Per questo avviene che i bugiardi sono esclusi dal possesso della beatitudine celeste. Infatti chiedendo David a Dio: "Signore, chi abiterà nel tabernacolo tuo?" risponde lo Spirito Santo: "Chi dice la verità in cuor suo, chi non fece inganno con la sua lingua" (Sal 14,1.3).
Ma il danno principale della menzogna è che essa è quasi insanabile malattia dell'animo. Infatti, il peccato che si commette accusando qualcuno falsamente d'una colpa, o denigrando la fama e la stima del prossimo, non viene rimesso se il calunniatore non dia soddisfazione dell'ingiuria a chi ha incriminato. Ma gli uomini ben difficilmente lo fanno, perché, come abbiamo avvertito, ne vengono distolti soprattutto da un falso pudore e da una certa vana opinione della propria dignità. Chi, dunque, è in questo peccato non possiamo dubitare che sia condannato alle pene eterne dell'inferno. Ne alcuno speri di poter ottenere perdono delle calunnie o della denigrazione fatta, se prima non dia soddisfazione a colui la cui dignità e fama egli ha denigrato in qualche modo, o pubblicamente in giudizio, o anche in adunanze private e familiari.
Inoltre questo danno è molto grave ed esteso e colpisce tutti; perché dalla falsità e dalla menzogna sono rotti i vincoli più stretti della società umana: la lealtà e la verità. Tolti questi, ne segue una gran confusione nella vita e gli uomini in nulla sembrano differire dai demoni.
Il parroco insegni, inoltre, che bisogna evitare la loquacità, così possiamo sfuggire anche gli altri peccati e ci si può correggere dal vizio della menzogna, vizio dal quale difficilmente si possono astenere le persone loquaci.
In ultimo, il parroco confuterà l'errore di quelli che, con i loro vani discorsi, si scusano e difendono la menzogna sull'esempio dei furbi, che ritengono virtù, essi dicono, mentire a tempo debito. Il parroco dirà, il che è verissimo, che la prudenza della carne è morte per l'anima (Rm 8,6). Esorterà i suoi uditori a confidare in Dio nelle difficoltà, nelle angustie, senza ricorrere all'artificio della menzogna; poiché quelli che usano questo sotterfugio dichiarano, senz'altro, che si fanno forti della propria prudenza più che non abbiano speranza nella Provvidenza divina. A chi attribuisce la causa della sua menzogna al fatto che fu egli pure ingannato con la menzogna, bisogna far presente che non è lecito agli uomini vendicarsi da se stessi e che non bisogna compensare il male con il male, ma piuttosto vincere il male con il bene (Rm 12,17.19.21). E quand'anche fosse permesso dare questo contraccambio, a nessuno tuttavia è utile vendicarsi con proprio danno, essendo gravissimo danno quel che facciamo dicendo menzogne. A quelli che adducono a scusa la debolezza e la fragilità della natura umana, si raccomandi il doveroso precetto di implorare l'aiuto divino e di non sottostare alla debolezza della natura.
Quelli che oppongono la forza della consuetudine siano ammoniti, se han preso l'abitudine di mentire, a cercar di prendere l'abitudine contraria, cioè di dire il vero, soprattutto perché chi pecca per uso e consuetudine commette più grave colpa degli altri. E poiché non manca chi si difende con la scusa che tutti gli uomini, si dice, mentono e spergiurano, bisogna combattere quest'opinione, dicendo che non si devono imitare i cattivi, ma piuttosto riprenderli e correggerli. Se invece noi stessi mentiamo, la nostra ammonizione ha meno autorità nella riprensione e correzione degli altri.
A quelli che si difendono affermando che, con il dire il vero, spesso ne ricevono danno, i sacerdoti rispondano che questa non è una difesa per essi, ma un'accusa, giacché è dovere d'un cristiano patire piuttosto qualsiasi danno che mentire.
Restano le ultime due categorie di quelli che si scusano della menzogna: quelli che dicono di mentire per scherzo e quelli che dicono di farlo perché non potrebbero né comprare né vender bene, senza la menzogna; i parroci dovranno allontanare gli uni e gli altri da tale errore. I primi potranno essere strappati al vizio, sia insegnando loro quanto in questo genere di peccato l'uso accresca la consuetudine di mentire, sia inculcando che bisogna render ragione persino d'ogni parola oziosa (Mt 12,36). Gli altri, poi, siano rimproverati ancora più acerbamente, perché nell'addetta giustificazione sta appunto la loro più grave accusa, poiché essi stessi dichiarano di non attribuire alcuna fede e autorità all'insegnamento divino: "Cercate, pertanto, in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia e avrete in sovrappiù tutte queste cose" (Mt 6,33).

Nono e decimo comandamento

NON DESIDERARE LA CASA DEL PROSSIMO TUO, NE LA MOGLIE, IL SERVO, LA SERVA IL BUE, L'ASINO E TUTTO QUELLO CHE È SUO

15                In questi due comandamenti è riposto il modo per osservare gli altri

352 Si noti prima di tutto che in questi due comandamenti, che sono stati dati per ultimi, è quasi riposto il segreto per cui si possono osservare tutti gli altri. Poiché quello che è imposto con queste parole mira a questo: che se uno vuole osservare i suddetti comandi della Legge, deve soprattutto badare a non desiderare disordinatamente. Infatti chi è contento di quel che possiede, non desidera, ne brama le cose altrui. Egli godrà dei vantaggi degli altri, darà gloria a Dio immortale, lo ringrazierà più che può, onorerà il sabato, cioè godrà di perpetua pace, onorerà i suoi maggiori, infine non offenderà alcuno né con atti, né con parole, nè in altro modo. Infatti, origine e seme di tutti i mali è la malvagia concupiscenza (1 Tm 6,10; Gc 1,14; 4,1), giacché chi ne è acceso cade a precipizio in ogni sorta di turpitudini e di colpe. Premesse queste avvertenze, il parroco sarà molto diligente nell'esporre quel che segue e i fedeli più attentamente lo ascolteranno.
Quantunque qui noi abbiamo unito due comandamenti, perché, essendone simile l'argomento, tengono la medesima via nell'ammaestrarci, il parroco tuttavia, nell'esortare e nell'ammonire, potrà trattarli insieme o separatamente, come gli sembrerà più conveniente. Se poi si assumerà il compito di spiegare il Decalogo, mostri quale sia la dissomiglianza tra i due comandamenti e in che cosa una concupiscenza differisca dall'altra; la differenza è esposta da sant'Agostino nel libro delle questioni sull'Esodo.
L'una di esse mira soltanto a ciò che è utile e a ciò che è vantaggioso; l'altra ha per oggetto le libidini e i piaceri sessuali. Se dunque uno desidera il podere o la casa d'altri, brama più il lucro o l'utile che il piacere; se invece desidera la moglie altrui, arde non del desiderio dell'utile, ma del piacere.
Duplice fu la necessità di questi comandamenti: la prima deriva dall'esigenza di spiegare il senso del sesto e settimo comandamento. Perché, quantunque con un certo naturale acume si potesse comprendere che, vietato l'adulterio, era pur proibita la brama di possedere la moglie altrui (giacché se fosse lecito il desiderare, dovrebbe esserlo ugualmente il possedere) tuttavia molti Ebrei, accecati dal peccato, non potevano essere indotti a credere che ciò fosse proibito; anzi, dopo che fu divulgato e conosciuto questo precetto divino, molti che si professavano interpreti della Legge caddero in questo errore, come si può capire dal discorso del Signore, nel Vangelo di san Matteo: "Udiste come fu detto agli antichi: "Non fare adulterio". Ma io vi dico [...]"(Mt 5,27), con quel che segue. Seconda necessità di questi comandamenti è di vietare distintamente ed esplicitamente certe colpe, non vietate esplicitamente nei comandamenti sesto e settimo. Il settimo comandamento, per esempio, proibisce che uno desideri ingiustamente le cose altrui o tenti di prenderle; questo invece vieta che uno possa in qualche modo desiderare le cose altrui, quand'anche potesse ottenerle a buon diritto e secondo la legge, quando dal loro possesso derivasse un danno al prossimo.

16                In questi precetti è manifesta la bontà di Dio verso di noi

353 Siano avvertiti i fedeli, prima di venire alla spiegazione del comandamento, che noi con questa Legge non siamo soltanto ammaestrati a frenare le nostre cupidigie, ma anche a conoscer la pietà di Dio verso di noi, che è immensa. Egli infatti, avendoci fornito con i precedenti comandamenti della Legge una specie di difesa, perché nessuno potesse danneggiare noi e le cose nostre, con questo comandamento supplementare volle, soprattutto, provvedere che non ci danneggiassimo con i nostri sfrenati desideri, cosa che facilmente ci sarebbe accaduta se fosse stata libera e intera per noi la possibilità di bramare e desiderare ogni cosa. Con il prescriverci, invece, questa Legge ciò che non dobbiamo desiderare, Dio provvide a che gli stimoli delle passioni, dalle quali possiamo più spesso esser incitati verso le cose a noi dannose, repressi in qualche modo dal vigore di questa norma, meno ci assillino. Così, liberati dalla molesta cura delle passioni, possiamo avere più tempo per compiere quei doveri di pietà e di religione che, in gran numero e importantissimi, dobbiamo a Dio stesso.
Né questa norma c'insegna solo questo, ma ci ammonisce pure che la Legge di Dio è di tal fatta che bisogna osservarla non solo con il compiere le obbligazioni esterne imposteci dal dovere, ma anche con l'intima adesione dell'animo. Questa è la differenza tra le leggi divine e le umane: queste si contentano dell'osservanza esterna, quelle invece, poiché Dio penetra nell'animo nostro, richiedono vera e sincera castità e integrità dell'animo stesso. La Legge divina è come uno specchio, in cui vediamo i vizi della nostra natura; perciò l'Apostolo disse: "Non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non dicesse: "Non desiderare" " (Rm 7,7). Infatti, poiché la concupiscenza, cioè il fomite del peccato che ebbe origine dal peccato originale, perdura sempre in noi, veniamo a conoscere che siamo nati nel peccato e perciò, supplichevoli, ci rifugiamo presso colui che, solo, può togliere le sozzure del peccato.

17                Le due parti del comandamento: proibizioni e prescrizioni

354 Ognuno di questi due comandamenti ha questo in comune con gli altri: da una parte, vieta qualche cosa, dall'altra parte, impone dei doveri da compiere.
Per quanto riguarda la proibizione, perché nessuno creda che sia peccato la concupiscenza non viziosa, come è quella dello spirito contro la carne (Gal 5,17), o quella che consiste nel chiedere a ogni momento le divine giustificazioni (Sal 118,20), ciò che David desiderava di ricordare, il parroco insegni quale sia la concupiscenza che viene colpita dalla prescrizione di questa legge.
Si ricordi che la concupiscenza è un turbamento e uno stimolo dell'animo, per opera del quale gli uomini desiderano le cose gradite che non possiedono e allo stesso modo in cui gli altri appetiti dell'animo non sempre sono cattivi, così questo stimolo della concupiscenza non sempre deve essere riposto tra i vizi. Infatti non è cosa cattiva il desiderare cibo o bevanda, bramare di riscaldarci quando abbiamo freddo, o di rinfrescarci quando abbiamo caldo; anzi questo retto stimolo della concupiscenza è insito nella nostra natura per opera di Dio. Ma per il peccato dei nostri progenitori, accadde che esso, passando i confini segnalati dalla natura, si depravò a tal segno che spesso è incitato a desiderare le cose che ripugnano allo spirito e alla ragione.
Questo stimolo, se moderato e racchiuso nei suoi limiti, spesso procura grandi vantaggi, perché, prima di tutto, fa in modo che noi preghiamo Dio con assiduità e chiediamo supplichevoli a lui quello che soprattutto desideriamo. L'orazione infatti è la manifestazione del desiderio e, se mancasse questo retto stimolo della concupiscenza,
non ci sarebbero tante preghiere nella Chiesa di Dio. Inoltre ci rende più cari i doni di Dio, perché quanto più fortemente ardiamo del desiderio di una cosa, tanto più cara e gradita ci diviene quando l'abbiamo ottenuta. Lo stesso piacere, poi, che proviamo per la cosa desiderata, ci fa ringraziare Dio con maggiore devozione. Perciò, se qualche volta è lecito desiderare, dobbiamo riconoscere che non è proibito ogni stimolo di concupiscenza e, quantunque san Paolo abbia detto che la concupiscenza è peccato (Rm 7,17.20), bisogna intendere ciò nel senso in cui parlò Mosè (Es 20,17), del quale riporta la testimonianza; lo dichiara la parola dello stesso Apostolo, poiché nella Lettera ai Galati chiama questo difetto: concupiscenza della carne. "Camminate", egli dice, "nello spirito e non soddisfate i desideri della carne" (5,16).
Dunque lo stimolo del desiderio naturale e moderato, che non esce dai suoi limiti, non è proibito; e molto meno quella spirituale tendenza di una retta mente, da cui siamo stimolati a desiderare ciò che ripugna alla carne. A essa infatti ci esortano le Sacre Scritture, dicendo: "Desiderate i miei discorsi" (Sap 6,12); "Venite a me tutti voi che mi desiderate" (Sir 24,26).
Pertanto con questa proibizione non è vietato del tutto quel desiderio che può condurre tanto al bene quanto al male, ma la consuetudine della prava cupidigia, chiamata concupiscenza della carne e fomite di peccato, la quale porta con sé il consenso dell'animo, deve esser sempre annoverata tra i vizi. Dunque è vietata soltanto quella libidine di concupiscenza che l'Apostolo chiama concupiscenza della carne (Gal 5,16.24), cioè quei moti di concupiscenza che non hanno alcun freno di ragione e non sono racchiusi nei limiti fissati da Dio.
Questa cupidigia è condannata, sia che desideri il male, come adulteri, ebrietà, omicidi e altre simili colpe nefande, di cui l'Apostolo dice: "Non desideriamo ciò ch'è malvagio, come essi lo desiderarono" (1 Cor 10,6); sia che quanto desideriamo non sia lecito per noi, quantunque le cose desiderate per natura non siano cattive. A questo genere di cose appartiene ciò che Dio o la Chiesa vietano di possedere; non è infatti lecito desiderare ciò che è in generale proibito possedere, come lo erano nell'antica Legge, l'oro e l'argento che erano serviti per farne idoli, cose che il Signore nel Deuteronomio vietò di desiderare (7,25).
Inoltre questa viziosa bramosia è proibita perché le cose che si desiderano sono di altri, come la casa, il servo, l'ancella, il campo, la moglie, il bove, l'asino e molte altre, che la Legge divina vieta di desiderare appunto perché di altri. Il desiderio di tali cose è cattivo e viene annoverato tra i più gravi peccati, quando l'animo da il suo consenso.
Infatti si ha naturalmente il peccato, quando, dopo l'impulso di malvagio passioni, l'animo si diletta di cose biasimevoli e consente o non ripugna a esse. Così insegna san Giacomo, allorché mostra l'origine e il progredire del peccato, con queste parole: "Ognuno è tentato, attratto e allettato dalla propria concupiscenza. Quando poi la concupiscenza ha concepito, produce il peccato e il peccato, quando è stato consumato, genera la morte" (1,14).

18                Spiegazione del comandamento

355 Giacché siamo così messi in guardia dalla Legge che dice Non desiderare, queste parole si devono intendere nel senso che dobbiamo tener lontano il desiderio dalle cose altrui; che la sete di cupidigia per le cose degli altri è immensa e infinita, né mai si sazia. Sta scritto infatti: "L'avaro non si sazierà di denaro" (Qo 5,9) e anche Isaia dice: "Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campo con campo" (5,8). Ma dalla spiegazione delle singole parole più facilmente capiremo la turpitudine e la gravità di questo peccato.
Il parroco insegni che con il termine "casa" non s'intende soltanto il luogo che abitiamo, ma tutti i beni ereditari, come si può ricavare dall'usanza e consuetudine degli scrittori sacri. Nell'Esodo sta scritto che alle levatrici furono edificate case da Dio (1,21) e la frase qui significa che le loro sostanze furono aumentate e accresciute da Dio. Da questa interpretazione conosciamo che questa parte del precetto vieta di desiderare avidamente le ricchezze, di invidiare le facoltà, la potenza, la nobiltà altrui, mentre ci è imposto di contentarci del nostro stato, qualunque esso sia, umile o eccelso. Dobbiamo poi intendere che è vietato anche il desiderio della gloria altrui, giacché anche questa ha relazione con la casa.
Quel che segue poi, Né il bove né l'asino, mostra che non dobbiamo desiderare non solo le cose importanti, come la casa, la nobiltà e la gloria, quando siano d'altri, ma nemmeno le piccole, comunque siano, animate o inanimate.
Segue ancora Né il servo, né la serva; ciò s'ha da intendere tanto degli schiavi presi in guerra, quanto di tutti i servi, che non dobbiamo desiderare, come ogni altro bene altrui. Quanto agli uomini liberi, che servono di loro volontà,, per denaro, per amore e affetto, in nessun modo, né con parole, né con dar loro speranze, promesse, ricompense, si devono corrompere o indurre ad abbandonare coloro ai quali spontaneamente si sono vincolati; anzi, se prima del tempo pattuito per il loro servigio, se ne allontanassero, siano ammoniti, con l'autorità di questo comandamento, a farvi prontamente ritorno.
Quanto alla menzione che nel comandamento si fa del prossimo, essa mira a dimostrare la colpa di coloro che insistono a desiderare i campi vicini, le case contigue o altra cosa siffatta, che sia a portata di mano. La vicinanza, infatti, che suoi considerarsi come un vincolo d'amicizia, talvolta cambia l'amore in odio, per colpa della cupidigia di possedere. Ma non offendono affatto questo comandamento quelli che desiderano comprare, o comprano a giusto prezzo dai vicini quanto questi possono vendere. Essi infatti non solo non danneggiano il prossimo, ma lo aiutano grandemente, poiché il denaro gli sarà di maggior comodo e vantaggio di quelle cose che vende.
Al precetto che vieta di desiderare la roba d'altri, segue l'altro che vieta di desiderare la moglie degli altri; da quest'ultimo veniva proibito non soltanto quella libidine di concupiscenza con cui l'adultero desidera la moglie altrui, ma anche quella per la quale uno desidera sposare la moglie d'altri. Infatti, quand'era permesso il ricorso al libello del ripudio, poteva facilmente avvenire che la donna ripudiata da uno fosse accolta in moglie da un altro. Ma il Signore lo vietò, affinché né i mariti fossero stimolati a lasciare le mogli, né le mogli si mostrassero scontrose e capricciose coi mariti e così s'imponesse loro quasi una certa necessità di ripudiarle.
Adesso dunque il peccato è più grave, perché un altro uomo non può sposare una donna ripudiata dal marito, se non dopo la morte di questo; così chi desidera la moglie altrui, facilmente cadrà da un desiderio all'altro: bramerà infatti o che muoia il marito di lei, o di commettere un adulterio. Lo stesso si dica delle donne, promesse in matrimonio a un altro; anche queste non è lecito desiderarle, giacché chi cerca di rompere il fidanzamento viola un santissimo vincolo religioso. A quel modo poi che è somma nefandezza desiderare la donna d'altri, così non si deve in nessun modo desiderare come moglie la donna consacrata al culto e alla religione di Dio.
Se poi uno desiderasse di prendere in moglie una donna maritata, non credendola però tale, disposto però a non desiderarla se la sapesse maritata a un altro, come accadde al faraone e ad Abimelech, che desiderarono sposare Sara, credendola nubile e sorella, non già moglie di Abramo (Gn 12,11; 20,2 ss), colui che così pensa, non viola questo precetto.

19                Rimedi contro la concupiscenza

356 Perché il parroco possa indicare i rimedi adatti a togliere questa passione della cupidigia, deve spiegare l'altra parte del comandamento, che consiste in questo: se le ricchezze abbondano, non dobbiamo attaccarvi il cuore, ma essere invece sempre pronti a profonderle per pietà e per amore delle cose divine, volentieri erogandole nel sollevare le miserie dei poveri. Se poi ci mancano i mezzi, dobbiamo sopportare la povertà con animo sereno e ilare. Così, se saremo liberali nel dare le cose nostre, estingueremo in noi il desiderio delle altrui. Quanto alle lodi della povertà e al disprezzo delle ricchezze, facilmente il parroco potrà trovare molti argomenti nelle Sacre Scritture e nei santi Padri, per esperii al popolo fedele.
Con questa legge ci viene pure comandato di desiderare con ardente passione e con tutta la forza dell'animo che si compia soprattutto non ciò che desideriamo, ma quel che Dio vuole, secondo le parole nell'Orazione domenicale. E la volontà di Dio è soprattutto questa: che noi in maniera speciale diventiamo santi, conserviamo l'animo sincero, integro e puro da ogni macchia e ci esercitiamo in quei doveri della mente e dello spirito che ripugnano ai sensi materiali, cosicché, domati i loro appetiti, teniamo nella vita la retta strada, sotto la guida della ragione e dello spirito e infine freniamo soprattutto l'impeto violento di quei sensi che offrono materia alla nostra cupidigia e alla libidine.
Ma a estinguere questo ardore di desideri giova moltissimo il proporci dinanzi agli occhi i danni che ne derivano.
Primo danno è questo: se noi siamo schiavi di tali passioni, nell'anima nostra regna fortissimo il potere del peccato; perciò l'Apostolo ammonisce: "Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, in modo che dobbiate ubbidire alle sue concupiscenze" (Rm 6,12). Poiché, come resistendo noi alle passioni, cadono a terra le forze del peccato, così, soccombendo a esse, cacciamo il Signore dal suo regno e in suo luogo poniamo il peccato.
C'è poi il secondo danno: da questo impeto di concupiscenze, come da una fonte, emanano tutti i peccati, come insegna san Giacomo (1,14). E san Giovanni scrive: "Tutto quello che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita" (1 Gv2,16).
Il terzo danno consiste in questo: dalle passioni viene oscurato il retto giudizio dell'animo, perché gli uomini, accecati dalle tenebre delle passioni, giudicano onesto e bellissimo quanto essi bramano. Infine l'impeto della concupiscenza soffoca la parola di Dio, posta nelle anime da quel grande agricoltore che è Dio. Così infatti sta scritto in san Marco: "Gli altri [chicchi di grano] seminati tra le spine sono coloro che ascoltano la parola; ma le cure del mondo, l'inganno delle ricchezze e le voglie delle altre cose s'insinuano a soffocare la parola, che resta così infruttuosa" (4,18.19).

20                Chi soprattutto debba esser tenuto lontano dal vizio della concupiscenza

357 Più di tutti gli altri sono colpiti da questi vizi della concupiscenza e sono quindi più bisognosi di essere esortati dal parroco a osservare più diligentemente questo comandamento quanti si dilettano di giochi disonesti, o abusano immoderatamente dei giochi; così pure quei mercanti che desiderano penuria d'ogni cosa e carestia, o sopportano a malincuore che ci siano altri i quali riescono a vendere a più caro prezzo o a comperare più a buon mercato di loro.
Peccano allo stesso modo quanti desiderano che gli altri siano nel bisogno, per potere nel commercio guadagnare di più. Così pure peccano quei soldati che bramano la guerra per cupidigia di saccheggio; i medici che desiderano le malattie; i giureconsulti che si augurano abbondanza di cause e di liti; gli artigiani, infine, che, avidi di guadagno, invocano penuria di quanto è necessario alla vita, per trame il maggior lucro possibile. Inoltre, in questo peccano gravemente quanti sono avidi e bramosi di acquistar lode e gloria, sia pure a prezzo di calunnia e danno alla fama altrui; soprattutto se coloro che desiderano lode e gloria sono uomini inetti e di nessun valore. Poiché la lode e la fama sono premi del valore e del lavoro, non già dell'ignavia e della nullità.

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