Terza domanda
1 SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ COME IN CIELO COSÌ IN TERRA
Argomento della domanda
386 Siccome Cristo Signore ha
detto: "Non chiunque mi dice: "Signore, signore", entrerà nel
regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi
entrerà nel regno dei cieli" (Mt 7,21), tutti quelli che vogliono arrivare
al celeste regno dovranno domandare a Dio che la sua volontà sia fatta. Perciò
questa domanda è posta subito dopo la domanda del regno dei cieli. Per
illuminare i fedeli sulla necessità della domanda stessa e sull'abbondanza dei
doni salutari che ci fa ottenere, i parroci spiegheranno a quanta miseria e
tormenti sia stato soggetto il genere umano per il peccato del nostro
progenitore.
2 L'uomo corrotto dal peccato non capisce il suo vero bene
387 Da principio Dio mise in
tutte le creature il desiderio del proprio bene, sicché ciascuna desiderasse e
ricercasse per naturale propensione il proprio fine, dal quale esse non deviano
se non per un impedimento estrinseco. Cosi, fin dall'inizio, l'uomo ebbe per istinto
di ricercare Dio, principio e autore della sua felicità, e questo impulso è
tanto più nobile ed eccellente in quanto l'uomo è dotato di ragione e di
giudizio. Ma mentre le creature prive di ragione conservavano questo ingenito
amore e, create buone fin dall'inizio e per natura, tali rimasero e rimangono
tuttora, solo il misero genere umano non si mantenne invece sulla via
assegnatagli. Così, non solo perse i beni della giustizia originale, dei quali
Dio aveva magnificamente abbellito le sue facoltà naturali, ma, come se ciò non
bastasse, oscurò in sé l'originario grande amore della virtù. "Tutti hanno
errato, tutti sono diventati inutili; non ce n'è uno che faccia il bene,
neanche uno" (Sal 52,4).
Poiché l'animo e la mente
dell'uomo sono volti al male fin dalla giovinezza (Gn 8,21), si capisce come
nessuno sappia da sé orientarsi alla salvezza, ma tutti siano propensi al male
e innumerevoli siano i pravi desideri degli uomini, proclivi come sono alle
passioni dell'ira, dell'odio, della superbia, dell'ambizione e a ogni specie di
male. Sommersi in tanti mali, neppure ci accorgiamo (ed è questa l'estrema
nostra miseria) che molti di essi sono mali, terribile prova questa della
rovina degli uomini che, resi ciechi dalle passioni e dalla libidine, non vedono
che ciò che essi credono bene il più delle volte è la cosa più velenosa. Anzi,
si precipitano verso questi mali come verso un bene desiderabile e degno
d'essere ricercato, mentre rifuggono dai veri beni, aborrendoli come cose
dannose. Questo modo di pensare, questo corrotto giudizio è stato maledetto da
Dio, quando disse: "Guai a voi che il male dite bene e il bene male; date
per buio la luce e per luce le tenebre; l'amaro per dolce e il dolce per
amaro" (Is 5,20).
Per farci capire la nostra
miseria, le Sacre Scritture ci paragonano a quelli che hanno perso il gusto e,
rifuggendo perciò dai cibi sani, ricercando quelli dannosi (Is 24,9; Ger 31,29;
Ez 18,2). Ci paragonano anche ai malati. Come questi, infatti, non possono
adempiere alle funzioni e agli impegni di un uomo sano e robusto, finché non
siano guariti dalla malattia, cosi noi non possiamo compiere le azioni grate a
Dio, se prima non abbiamo ottenuto il sostegno della grazia divina. Se in tale
stato prendiamo a fare il bene, lieve sarà questo bene e di poco o nessun peso
per conseguire la beatitudine celeste.
Ma è cosa troppo alta e
superiore alle forze di noi uomini amare e adorare Dio come si conviene. Per la
nostra infermità noi strisciamo sul suolo, ne possiamo arrivare a lui senza
l'appoggio della grazia divina. È pure di grande opportunità, a esprimere la
misera condizione del genere umano, il paragone dei fanciulli, i quali,
lasciati a se stessi, si precipitano inconsideratamente sulla prima cosa che
vedono. Siamo bambini imprudenti e del tutto occupati in discorsi frivoli e in
azioni futili, se manchiamo del soccorso di Dio. È cosi che ci rimprovera la
Sapienza: "Fino a quando, bambini, amerete le puerilità e, stolti,
desidererete ciò che riesce dannoso?" (Prv 1,22). L'Apostolo ci esorta:
"Non vi fate bambini nell'intelligenza" (1 Cor 14,20). Ma noi cadiamo
in cecità e in errori maggiori di quelli della fanciullezza; mentre a questa
non manca che la saggezza umana, alla quale potrà con il tempo pervenire, noi
invece, senza la guida e l'appoggio di Dio, non possiamo aspirare alla saggezza
divina, necessaria a conseguire la salvezza, e se non è presente la mano di Dio
su noi, allora rigettiamo i veri beni e ci precipitiamo in una morte
volontaria.
3 Necessità di prescrivere una regola di vita cristiana
388 Se qualcuno, dissipata
con il divino aiuto la caligine dell'animo, riconosce le miserie umane, sente
senza stupirsi la forza della concupiscenza, riconosce quanto ripugnano allo
spirito le passioni dei sensi e ancora guarda la propensione nostra al male,
come potrà non desiderare con ardente desiderio un rimedio a tanto male, dal
quale per vizio di natura noi siamo oppressi? Come non ricercherà la legge
salutare alla quale volgere e conformare la sua vita di cristiano? Questo,
appunto, noi chiediamo, quando imploriamo da Dio: "Sia fatta la tua
volontà". Essendo noi caduti in quelle miserie per aver rigettato il
dovere dell'obbedienza e trascurata la volontà divina, un solo rimedio Dio ci
offre a tanto male: quello di vivere in quella volontà di Dio, che nel peccato
abbiamo disprezzato, e nel conformare tutti i nostri pensieri e atti a quella
Legge. Per questo chiediamo supplichevoli a Dio che sia fatta la sua volontà.
Ma questo lo devono chiedere
con ardore anche coloro, nell'animo dei quali Dio già regna, e quelli che,
illuminati dai raggi della luce divina, per il beneficio di questa grazia,
obbediscono già alla sua volontà. Pur avendo la grazia, essi sono ancora
combattuti dalle passioni, per la tendenza al male, radicata nei sensi degli
uomini. Infatti, anche in tale condizione privilegiata, noi siamo sulla terra
di grande pericolo a noi stessi, per la facilità con cui siamo sedotti e
trascinati dalla voluttà, sempre attiva nelle nostre membra, e possiamo essere
traviati ancora dalla via della salute (Gc 1,14). Da questo pericolo Cristo
Signore ci ha messo in guardia: "Vegliate e pregate per non cadere in
tentazione; lo spirito veramente è pronto, ma la carne è debole" (Mt
26,41).
Non è in potere dell'uomo,
neppure in quello giustificato dalla grazia di Dio, il vincere gli appetiti
carnali in maniera tale che non si risveglino più; la grazia di Dio sana lo
spirito in coloro che ha reso giusti, ma non la carne, della quale l'Apostolo
ha detto: "So che il bene non è in me, cioè nella mia carne" (Rm 7,18).
Quando, infatti, il primo uomo ebbe perduta la giustizia originale, freno agli
appetiti, pochissimo potè poi la ragione contenerli, in modo che non tendano a
ciò che ripugna alla ragione stessa.
Scrive l'Apostolo che nella
parte carnale ha sede il peccato, cioè il fomite del peccato, per farci capire
come il peccato si trova in noi non temporaneamente, come un ospite, ma è fisso
nel nostro corpo per tutto il tempo della vita, come in perpetuo suo domicilio.
Combattuti pertanto, senza tregua, da nemici domestici e interni, facilmente
intendiamo la necessità di cercare rifugio nell'aiuto di Dio, perché sia fatta
in noi la sua volontà.
4 Con l'espressione "volontà divina" intendiamo i precetti divini
389 Si deve ora far conoscere
ai fedeli quale sia la portata di questa richiesta.
Omettendo le molte questioni
sulla volontà di Dio, che solo i dottori scolastici sogliono utilmente e
diffusamente discutere, diremo che qui la volontà è quella che si suole
chiamare "volontà significata": quello cioè che Dio ci ha ordinato o
suggerito di fare o d'evitare. Sotto il nome di volontà divina si comprendono
qui tutti i precetti necessari a conseguire la beatitudine celeste, sia che
riguardino più particolarmente la fede, sia che riguardino i costumi e nello
stesso tempo tutto ciò che da sé, o mediante la sua Chiesa, Cristo Signore ha
ordinato o proibito di fare. "Non siate imprudenti, ma cercate di sapere
quale sia la volontà di Dio" (Ef 5,17), scrive l'Apostolo, parlando di
questa volontà.
Quando dunque preghiamo:
"Sia fatta la tua volontà", chiediamo al Padre celeste che ci conceda
la forza di obbedire ai suoi divini comandamenti e di servirlo con santità e
giustizia, per tutti i nostri giorni (Lc 1,74). Cosi possiamo agire secondo i
suoi desideri e la sua volontà, compiere i doveri che ci vengono raccomandati
nelle Sacre Scritture e, sotto la sua guida e il suo impulso, operare quanto si
conviene a coloro i quali, non da volere di carne, ma da Dio sono nati (Gv
1,13), seguendo l'esempio di Cristo nostro Signore, che fu obbediente fino alla
morte e alla morte di croce (Fil 2,8). Quindi siamo disposti a patire qualunque
tormento, piuttosto che allontanarci minimamente dalla via segnalaci dalla sua
volontà.
Nessuno avrà zelo e amore più
ardente di colui al quale sarà stato concesso di capire la sublime dignità di
chi obbedisce a Dio. Costui sente quanto sia vero che servire Dio e obbedire a
lui vuoi dire regnare. "Chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli,
egli mi è fratello, sorella e madre" (Mt 12,50), ha detto il Signore,
cioè: a lui sono unito con i vincoli più stretti dell'amore e della
benevolenza.
Non vi è forse uno tra i
santi che non abbia chiesto a Dio, con infinito ardore, il ricco dono espresso
in questa preghiera e tutti lo hanno fatto con parole bellissime e spesso
varie. David specialmente chiede quel dono, in più modi e con parole sublimi e
soavissime, quando dice: "Mi diriga Dio a osservare le sue leggi!"
(Sal 118,5);
"Conducimi per il
sentiero dei tuoi comandamenti!" (ibid. 35) e spesso: "Guida i miei
passi con la tua parola e non abbia presa sul mio animo nessuna
ingiustizia" (ibid. 133), tutte parole che si risolvono in queste:
"Dammi intelligenza, perché impari i tuoi comandamenti; insegnami i tuoi
giudizi; dammi intelletto per capire i tuoi comandamenti" (ibid. 73). In
molti altri luoghi tratta questo stesso tema, luoghi che si devono indicare e
diligentemente spiegare ai fedeli, cosicché tutti capiscano la grande efficacia
e la grande abbondanza di beni salutari, contenuti in questa prima parte della
preghiera.
In secondo luogo, quando
preghiamo: "Sia fatta la tua volontà" noi detestiamo le opere della
carne, delle quali l'Apostolo scrive: "Sono note le opere della carne,
come la fornicazione, la sordidezza, l'inverecondia, la lussuria, ecc."
(Gal 5,19); "Se vivrete secondo la carne, voi morrete" (Rm 8,13).
Preghiamo quindi Dio che non ci lasci compiere ciò che i sensi, la cupidigia, o
la nostra debolezza in genere ci indurrebbero a fare, ma che invece egli guidi
la nostra volontà secondo la sua.
Sono lontani da questa sua
volontà i gaudenti, tutti occupati nel pensiero e nella ricerca dei godimenti
terreni. Questa gente è portata dalla libidine a precipitarsi su ciò che
desidera e tanta è la felicità da essa riposta nell'oggetto della sua prava
bramosia, da giudicare beato chi ottenga sempre quel che desidera. Noi invece
domanderemo a Dio di non curare la carne nelle sue concupiscenze (Rm 13,14), ma
di fare la sua volontà.
Però non arriviamo facilmente
a pregare Iddio di non soddisfare le nostre passioni; questa risoluzione
incontra infatti grande difficoltà, perché, quando lo chiediamo, sembriamo in
un certo modo odiare noi stessi; senza dir poi che questo stesso ci viene
attribuito a stoltezza da coloro che non vivono che per il loro corpo.
Con piacere, però, noi
incorreremo nella fama di stolti, per la causa di Cristo, il quale ha detto:
"Chi vuoi venire dietro a me, rinneghi se stesso" (Mt 16,24; Lc
9,23); tanto più che noi sappiamo essere preferibile desiderare ciò che è
giusto e onesto, che possedere ciò che è contrario alla ragione, alla virtù e
alle leggi di Dio. D'altra parte è certo che chi non potè conseguire ciò che
desiderò con retta intenzione, si trovi in posizione migliore di colui che
raggiunse la cosa desiderata sconsideratamente, spinto dai sensi. Inoltre noi
non solo chiediamo a Dio che ci impedisca di conseguire ciò che abbiamo
desiderato, se il desiderio viene da depravazione, ma anche gli diciamo che non
ci conceda quello che, quantunque sia da noi creduto buono, pure ci viene
ispirato dal demonio sotto le spoglie d'angelo di luce.
Rettissimo e pieno di pietà
dovette sembrare lo zelo dell'Apostolo quando tentò di trattenere il Signore
dall'affrontare la morte; eppure il Signore lo rimproverò acerbamente, poiché
egli ragionava secondo il sentimento umano, non secondo lo spirito divino (Mt
16,22). E chi può sembrare spinto da maggiore amore verso Dio dei santi Giacomo
e Giovanni quando, incolleriti con quei samaritani che non avevano voluto dare
ospitalità al maestro, chiesero a lui di far discendere dal cielo il fuoco, per
consumare quegli scortesi inumani? Eppure furono sgridati da Cristo Signore:
"Non sapete di quale spirito siete; il Figlio dell'uomo non è venuto a
perdere le anime, ma a salvarle" (Lc 9,54).
Né soltanto quando il nostro
desiderio è pravo, o sembra tale, dobbiamo pregare Dio che la sua volontà sia
fatta, ma anche quando esso effettivamente non è cattivo; come per esempio
quando la volontà segue il primo impulso della natura e desidera ciò che è atto
a conservarci in vita, rigettando ciò che pare contrario alla vita medesima.
Quando siamo ridotti a dover domandare qualche cosa di simile, diciamo con
tutta l'anima: "Sia fatta la tua volontà", imitando così colui dal
quale abbiamo ricevuto la salvezza e la norma della salvezza. Egli, oppresso
naturalmente per i tormenti e per la morte che l'aspettavano, conformò alla
volontà del Padre la sua volontà, nell'orrore dell'estremo martirio, dicendo:
"Si faccia non la mia volontà, ma la tua" (Lc 22,42).
Sbalordisce la depravazione
del genere umano: anche chi ha fatto violenza alle passioni e ha sottomesso la
sua alla divina volontà, non può evitare il peccato, se Dio non lo aiuta
proteggendolo dal male e indirizzandolo al bene. Per tutto ciò, dobbiamo
ricorrere a questa preghiera, con la quale chiediamo a Dio che completi in noi
l'opera da lui iniziata, sì da comprimere i ribelli moti del senso e
sottomettere definitivamente alla ragione i nostri desideri, conformandoci
interamente alla sua volontà. E così preghiamo ancora che tutto il mondo
accetti la volontà di Dio e che il mistero divino, celato ai secoli e alle
generazioni, sia reso noto e divulgato fra tutte le genti (Col 1,26).
5 Con la formula "come in cielo" noi domandiamo un'obbedienza resa perfetta dalla carità
390 Noi domandiamo, inoltre,
la norma e il modo di questa obbedienza, che cioè essa sia conforme a quella
norma che, nel cielo, osservano gli angeli e il coro delle anime beate: come
essi spontaneamente e con grandissimo diletto obbediscono alla Divinità, così
pure noi ci uniformiamo alla sua volontà molto volentieri e nel modo che a lui
piace. Ora Dio vuole, nelle azioni e nei desideri con i quali a lui tendiamo,
un amore sommo e ardentissimo; cosicché, anche se ci applichiamo al suo
servizio nella speranza di ottenere premi celesti, pure ricordiamo sempre che
abbiamo tale speranza proprio perché alla divina maestà è piaciuto di
infondercela. Sia dunque tutta la nostra speranza basata sull'amore di Dio che
al nostro amore fissò, come ricompensa, la felicità eterna. C'è qualcuno
infatti che serve anche amorevolmente, ma soltanto per mercede, dalla quale
dipende il suo amore. Ma ce ne sono altri che, mossi unicamente da pietà e da
carità, non mirano, in ciò che fanno, che alla bontà e alla virtù di Dio, tanto
da stimarsi felici di poterlo servire, con questo solo pensiero e con questa
ammirazione.
Ebbene, le parole: "Come
in cielo così in terra", sono aggiunte per questo, per farci intendere che
dobbiamo essere sempre obbedienti a Dio, come lo sono i beati, le lodi dei
quali, per la loro perfetta sottomissione, David ha così celebrato nei Salmi:
"Benedite il Signore voi tutti suoi eserciti, voi suoi ministri, che fate
la sua volontà" (Sal 102,21).
Se qualcuno però, seguendo
san Cipriano, intenda con le parole in cielo i buoni e i pii e con
l'espressione in terra i cattivi e gli empi, noi approveremo il suo pensiero,
indicando nel cielo lo spirito e nella terra la carne; in modo da chiedere
nella preghiera che tutti e tutte le cose obbediscano alla volontà di Dio in
tutto.
6
7 Ringraziamento contenuto in questa preghiera
391 Questa richiesta contiene
anche un ringraziamento. Noi veneriamo infatti la santissima volontà di Dio e
pervasi da immensa gioia esaltiamo con alte lodi e ringraziamenti tutte le sue
opere, perché siamo perfettamente convinti che ha fatto bene ogni cosa. Ma
poiché sappiamo che Dio è onnipotente, necessariamente ne viene che tutto sia
stato creato per volontà sua e poiché ancora affermiamo, ed è la pura verità,
che egli è il sommo Bene, confessiamo per ciò stesso che nulla nelle sue opere
è meno che buono, avendo egli comunicato la sua bontà a tutte le cose. Se non
riusciremo in tutte a capire il disegno di Dio, per tutte però, senza il minimo
dubbio o esitazione, dobbiamo ripetere con l'Apostolo che le sue vie sono impenetrabili
(Rm 11,33). Pure, essendosi Dio degnato di farci conoscere la sua celeste luce,
ci inchiniamo profondamente alla sua volontà, avendoci egli strappati al potere
delle tenebre e trasferiti nel regno del suo Figlio diletto (Col 1,13).
8 Cose da meditarsi in questa preghiera
392 Per spiegare quanto
riguarda la pratica di questa preghiera, ritorniamo a quello che ne dicemmo da
principio, che cioè il popolo fedele nel recitarla dev'essere profondamente
umile, riconoscendo la naturale inclinazione delle passioni a opporsi alla
volontà divina, pensando sempre come in questo suo dovere verso Dio egli viene
sorpassato da tutte le cose create, poiché di esse sta scritto: "Tutte le
cose ti obbediscono" (Sal 118,91). Pensi, inoltre, che noi siamo estremamente
deboli, mentre non solo non possiamo condurre a termine un'opera grata a Dio,
ma neanche incominciarla, se non siamo aiutati da Dio medesimo (7 Cor 15,10).
Ma poiché nulla è più
magnifico e più insigne che servire Iddio e comportarsi nella vita secondo la
sua Legge e i suoi precetti, che cosa di più può desiderare il cristiano che
percorrere le vie del Signore, senza progettare, né intraprendere azione alcuna
che sia contraria alla volontà divina? Per prendere questa abitudine e
conservarla con fermezza, si cerchino nei Libri Sacri gli esempi di coloro ai
quali tutto andò sempre in malora per non aver conformato i propri disegni alla
volontà di Dio.
Si ammoniscano, da ultimo, i
fedeli ad abbandonarsi nella semplice e assoluta volontà di Dio. Sopporti con
animo sereno la propria condizione chi si vede in posizione meno alta del suo
merito; non abbandoni il suo posto, anzi persista dove egli è stato chiamato e
sottometta il giudizio alla volontà di Dio, il quale sa provvederci meglio di
quanto noi possiamo desiderare. Se strettezze di mezzi, infermità fisica,
persecuzioni, o altri dispiaceri e affanni ci fanno soffrire, certamente nulla
avviene senza volere di Dio, il quale ha in sé l'ultima ragione delle cose. Non
dobbiamo perciò lasciarci abbattere dalle sventure, ma sopportandole con animo
invitto, dire sempre: "Sia fatta la volontà del Signore" e ripetere
le parole di Giobbe: "Come a Dio piacque è avvenuto: sia benedetto il nome
del Signore" (Gb 1,21).
Quarta domanda
DACCI OGGI IL NOSTRO PANE
QUOTIDIANO
8.1.1.1 Con quale spirito si devono chiedere i beni della vita presente
393 La quarta domanda, come
le rimanenti con le quali chiediamo propriamente e nominatamente gli aiuti
dell'anima e del corpo, è in relazione con le domande precedenti, perché la
Preghiera domenicale segue un tale ordine e una tale disposizione, che la
domanda delle cose necessarie al corpo e alla vita presente viene dopo quella
dei beni divini. Come, infatti, tutti gli uomini devono tendere a Dio come al
loro fine ultimo, così, per la medesima ragione, i beni attinenti alla vita
umana sono subordinati a quelli divini. Noi dobbiamo desiderarli e chiederli,
sia perché così vuole l'ordine della Provvidenza, sia perché ne abbiamo bisogno
per conseguire i beni celesti e arrivare con essi al nostro fine. Esso consiste
però nel regno e nella gloria del Padre celeste, nell'osservanza e rispetto di
quei precetti, che sappiamo essere la sua volontà. Ecco perché dobbiamo sempre
subordinare a Dio e alla sua gloria tutto il contenuto e lo spirito di questa preghiera.
I parroci adempiranno al loro
dovere verso i fedeli ascoltatori, spiegando loro come nel chiedere il
necessario all'uso e al godimento dei beni terreni, l'animo nostro e il nostro
amore devono sempre aver presente la prescrizione di Dio, ne da essa in alcun
modo allontanarsi. Infatti, spessissimo si pecca nel domandare cose terrene e
caduche, secondo quanto scrive l'Apostolo: "Non sappiamo domandare come si
conviene" (Rm 8,26). Domandiamo dunque come si conviene, perché, chiedendo
male qualche cosa, Dio non abbia a risponderei: "Non sapete quel che
domandate" (Mt 20,22).
Il criterio sicuro per
giudicare se la domanda sia cattiva o retta ce lo danno l'intenzione e lo scopo
che si prefigge colui che domanda. Così, se uno domanda cose terrene con una disposizione
d'animo da crederle beni assoluti e da fermarsi in esse come nel suo ultimo
desiderato fine e non si curi di chiedere altro, non chiede senza dubbio come
si conviene. "Non dobbiamo chiedere i beni terreni come nostri beni",
ha detto sant'Agostino, "ma come nostri bisogni" (De serm. Dom. in monte, 2, 16, 53; Epist., 130, 6). E anche l'Apostolo,
nella lettera ai corinzi, ammonisce di subordinare alla gloria di Dio tutti i
beni che hanno attinenza con le necessità della vita: "Sia che mangiate o
che beviate, o qualunque altra cosa facciate, fate tutto per la gloria di
Dio" (1 Cor 10,31).
9 La necessità di questa preghiera
394 Per far vedere ai fedeli
tutta la necessità di questa domanda, i parroci ricordino il bisogno che
abbiamo delle cose esterne per nutrirci e conservarci in vita; lo capiranno più
facilmente i fedeli, se si fa il confronto delle cose che furono necessarie ai
nostri progenitori con quelle che sono necessarie agli altri uomini per
mantenersi in vita. Per quanto nello stato di innocenza, dal quale essi
decaddero (e, per colpa loro, tutta la posterità) dovessero procacciarsi il
cibo per conservare le forze, tuttavia è grande la differenza tra i bisogni
loro e nostri. Essi non avevano bisogno di coprirsi con vesti, né di rifugiarsi
sotto un tetto, ne di difendersi con armi, ne di pensare a rimedi per malattie,
né di tante altre cose che a noi sono indispensabili per sostenere la nostra
natura debole e fragile. Bastava loro ampiamente, per conservarsi immortali, il
frutto che l'albero felicissimo della vita procurava loro, e avrebbe procurato
ai posteri, senza fatica.
Né l'uomo sarebbe rimasto
ozioso in tanta delizia, poiché Dio l'aveva collocato nel paradiso perché
lavorasse: soltanto non sarebbe stato in alcun modo affannoso il suo lavoro, ne
alcuna sua occupazione sarebbe stata meno che gioconda, ottenendo perpetuamente
dalla coltivazione degli orti felici, dolcissimi frutti, senza il pericolo di
essere mai deluso nella sua speranza o nel suo lavoro. Le generazioni
posteriori invece, oltre a essere private del frutto dell'albero della vita,
furono condannate con quella terribile sentenza: "Maledetto sia il suolo
per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita.
Spine e cardi produrrà per tè e mangerai l'erba campestre. Con il sudore del
tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei
stato tratto; polvere tu sei e in polvere tornerai!" (Gn 3,17-19).
A noi dunque accaddero le
cose contrariamente a quello che sarebbe accaduto ad Adamo e ai suoi posteri,
se avesse ottemperato alle parole di Dio; così tutto è rovesciato e volto a
maggior rovina nostra. Ancor più grave è il fatto quando si pensi che tanto
spesso ingenti spese, fatiche grandissime e sudori non ci danno alcun frutto;
quando i semi sono dati a una terra pessima, o sono soffocati dalla forza delle
erbe selvatiche che vi crescono in mezzo, quando non periscono rovinati dalla
pioggia, dal vento, dalla grandine, dalla siccità o dalla ruggine, sì che il
lavoro di tutto un anno è in pochissimo tempo annientato per una calamità
venuta dal cielo o dalla terra.
Tutto questo accade per
l'immensità dei nostri peccati, per i quali Dio disgustato non benedice più le
nostre opere. Così sempre rimane in vigore la sentenza terribile che da principio
pronunciò: "Con il sudore del tuo volto mangerai il pane".
Ai pastori dunque incombe di
far vedere al popolo fedele come per colpa loro gli uomini sono caduti in tanta
angustia, in così miserabile stato e come ora dobbiamo sudare e affannarci a
preparare le cose necessario alla vita e di fargli capire che ogni nostra
speranza, ogni nostro tentativo riuscirà vano, se Iddio non avrà benedetto le
nostre fatiche. Infatti "Né chi semina, né chi annaffia sono qualcosa, ma
è Dio solo che da l'accrescimento" (1 Cor 3,7). "Se Dio non avrà
edificata la casa, invano lavorano quelli che la costruiscono" (Sal
126,1).
I parroci insegnino che sono innumerevoli le cose per la cui
mancanza, o perdiamo la vita, o la passiamo penosamente. Conoscendo questa
necessità e la debolezza della natura, il popolo cristiano sarà costretto a
rivolgersi al Padre celeste e a supplicarlo di concedergli i beni terreni e
celesti. Imiterà il figliol prodigo che, sentendosi in bisogno in una lontana
regione e affamato, non trovando chi gli desse neppure delle ghiande,
ritornando in sé, comprese che non poteva aspettarsi il rimedio ai mali che lo
affliggevano se non dal padre. Il popolo fedele con maggior fiducia si
accingerà a pregare, se, pensando alla benignità divina, ricorderà che le orecchie
paterne sono sempre aperte alle voci dei figli. Poiché Dio, mentre ci esorta a
domandare il pane, promette pure di elargire in abbondanza quei beni a chi
prega rettamente. Insegnandoci come dobbiamo pregare, ci esorta, esortandoci ci
sprona, spronandoci promette, e, promettendo, fa nascere in noi la speranza di
una sicura impetrazione.
10 Oggetto della domanda
395 Dopo avere incitato e
infiammato l'animo del popolo fedele, segue la necessità e l'opportunità di
spiegare ciò che si deve chiedere con questa preghiera e anzitutto che cosa sia
questo pane che chiediamo. Si sappia dunque che col termine pane, nelle Sacre
Scritture, vengono indicate parecchie cose, ma due principalmente: in primo
luogo, tutto ciò che, come vitto o altrimenti, serve alla conservazione della
vita fisica; in secondo luogo, tutto ciò che Dio ci dona per la nostra vita
spirituale e per la salute dell'anima.
"Il pane". Noi, con
la concorde autorità dei santi Padri, chiediamo i sussidi per questa vita che
trascorriamo sulla terra. Perciò non si dia retta a coloro che dicono non
dovere i cristiani domandare a Dio i beni terreni di questa vita; al loro
errore contraddice, oltre che l'unanime opinione dei Padri, la moltitudine di
esempi offerti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Così, facendo voto, pregava
Giacobbe: "Se il Signore sarà meco e mi difenderà nella via per la quale
vado, se mi darà il pane per nutrirmi e gli abiti per vestirmi e se io tornerò
sano alla casa di mio padre, ecco, avrò Dio per mio Signore e questa pietra che
ho eretto a ricordo, sarà chiamata "casa di Dio": di tutto ciò che mi
darai, offrirò a te le decime" (Gn 28,20-22).
Salomone, pure, non faceva
che chiedere il necessario alla vita terrena, quando pregava: "Non mi dare
povertà o ricchezza: concedimi solo quanto basta alla mia vita" (Prv
30,8). Persino il Salvatore del genere umano ci ordina di chiedere cose che
nessuno oserà negare essere attinenti alla vita materiale: "Pregate perché
non abbiate a fuggire d'inverno o di sabato" ha detto (Mt 24,20). San
Giacomo scrive: "È triste qualcuno di voi? Preghi. E allegro? Intoni
salmi" (5,13). E che diremo dell'Apostolo? Egli così parla ai Romani:
"Per il Signore nostro Gesù Cristo, o fratelli, e per la carità dello
Spirito Santo, vi scongiuro di aiutarmi nelle preghiere che fate per me a Dio,
affinché mi liberi dagli infedeli che sono nella Giudea" (Rm 15,30).
Avendo dunque Dio concesso ai fedeli di chiedere il necessario alla vita
corporea e d'altra parte avendo Cristo data questa formula completa di
preghiera, nessun dubbio rimane che questa sia una delle sette domande.
Noi dunque chiediamo il pane
quotidiano, cioè le cose necessarie alla vita. Infatti col nome di pane
s'intende ciò che ci necessita, ossia le vesti per coprirci e il cibo per
nutrirci, sia che si tratti di pane, di carne, di pesce o di altro. Così
vediamo adoperato questo vocabolo da Eliseo quando ammonisce il re di dare il
pane ai suoi militi assiri, ai quali perciò fu distribuita gran quantità di
cibi (2 Re, 6,22). Sappiamo che anche di Cristo nostro Signore è scritto:
"Entrò di sabato in casa di un capo dei Farisei per mangiare il pane"
(Lc 14,1 ); è evidente che la parola indica tutto ciò che si riferisce al
mangiare e a bere.
A chiarire, però,
completamente il significato di questo vocabolo, si avverta che non si deve
intendere con esso gran copia o squisitezza di cibi o di vesti, ma soltanto una
quantità sufficiente e semplice, come scrive l'Apostolo: "Siamo contenti
quando abbiamo di che nutrirci e ricoprirci" (1 Tm 6,8). Così pure parlò Salomone:
"Concedimi quel tanto che basti alla mia vita" (Prv 30,8).
11
12 Perché si aggiunge la parola "nostro"
396 "Nostro."
Questa parola che segue immediatamente, accenna ancora alla frugalità e alla
parsimonia, poiché dicendo pane nostro, chiediamo quello veramente necessario,
non il superfluo. Si badi che non lo chiamiamo nostro perché ce lo possiamo
procacciare con il nostro lavoro, senza il soccorso di Dio; poiché leggiamo in
David: "Tutte le creature aspettano da te che tu dia loro il cibo a suo
tempo. Quando tu lo dai loro, esse lo raccolgono; tu apri la mano ed esse sono
saziare di beni" (Sal 103,27). "Gli occhi di tutti sperano in te.
Signore, e tu dai loro il cibo, a suo tempo" (Sal 144,15). Esso ci è
necessario e ci è dato da Dio, padre di tutti, che nutre le sue creature
viventi con la sua Provvidenza.
Il pane è chiamato nostro
anche perché lo dobbiamo acquistare in modo giusto, non con ingiustizia, frode,
o furto. Tutto ciò che ci prendiamo con male arti non è cosa nostra, ma altrui;
molto spesso riesce dannoso il suo acquisto o possesso e, senza dubbio, la
perdita che ne subiamo. Invece, nei guadagni onesti e faticati dei buoni è
riposta, secondo il Profeta, la tranquillità e una grande felicità:
"Perché ti nutrirai del lavoro delle tue mani, sarai felice e te ne verrà
bene" (Sal 127,2).
A quelli che, con l'onesto
lavoro, cercheranno il loro vitto, Iddio promette il frutto della sua
benignità: "II Signore spargerà la sua benedizione sulle tue cantine e su
tutte le opere delle tue mani; egli ti benedirà" (Dt 28,8). Non chiediamo
soltanto a Dio che ci sia dato di servirci di ciò che abbiamo guadagnato con il
nostro sudore e con la nostra virtù, aiutati dalla sua benevola protezione, e
che chiamiamo veramente cosa nostra, ma domandiamo anche un sano giudizio, per
usarne con rettitudine e saggezza.
13 Il termine "quotidiano"
397 "Quotidiano."
Anche a questa parola è annessa l'idea della frugalità e della misura di cui
ora abbiamo parlato; poiché non chiediamo un cibo eccessivo o ricercato ma
quello che soddisfa al bisogno della natura. Si vergognino perciò coloro che,
infastiditi di un cibo e di una bevanda comuni, ricercano sempre varietà
squisite di pietanze e di vini. Né meno aspramente vengono condannati, con
questa parola, coloro ai quali Isaia rivolge queste terribili minacce:
"Guai a voi che aggiungete casa a casa, campo a campo, finché non c'è più
terreno. Abiterete voi soli nel mezzo della terra?" (5,8). Insaziabile è
l'avidità di tali uomini, dei quali scrisse Salomone: "Mai sarà sazio
d'oro l'avaro" (Qo 5,9). A essi anche mira il detto dell'Apostolo:
"Coloro che vogliono diventare ricchi cadono nella tentazione e nella rete
del diavolo" (1 Tm 6,9).
Chiamiamo ancora quotidiano
il nostro pane perché di esso ci nutriamo per rinvigorire l'umore vitale che
quotidianamente si consuma con il calore naturale. Un'altra ragione v'è,
infine, dell'uso di questa parola: noi dobbiamo domandare il pane tutti i
giorni per non allontanarci mai dal pio uso di amare e pregare Dio, sicché ci
persuadiamo bene che la nostra vita e la nostra salute dipendono in tutto da
Dio.
14 L'espressione "dacci" o "dona a noi"
398 "Dacci oggi."
Quanta materia offrano queste parole per indurre i fedeli al culto pio e santo
e alla venerazione dell'infinita potenza di Dio, nelle cui mani sta tutto, e nello
stesso tempo per aborrire il nefando orgoglio di Satana quando dice:
"Tutto è stato ceduto a me e do ogni cosa a chi voglio" (Lc 4,6),
ognuno lo vede da sé: perché tutto è distribuito, si conserva e s'accresce
secondo il volere del solo Dio.
Ma che necessità è questa,
dirà qualcuno, di imporre anche ai ricchi che di tutto abbondano, di chiedere
il loro pane quotidiano? La necessità per loro è di pregare, non perché
veramente vengano loro date le cose di cui già per la bontà di Dio abbondano,
ma perché non perdano ciò che hanno. Perciò, come scrive l'Apostolo, i ricchi
devono imparare a non sentirsi superiori, ne a riporre le loro speranze
nell'incerto delle loro ricchezze, ma nel Dio vivente che ci concede
copiosamente l'uso di tutte le cose (1 Tm 6,17). Il Crisostomo adduce un'altra
ragione della necessità di questa preghiera ed è che non solo ci venga dato il
cibo, ma che ci venga dalla mano di Dio che, infondendo nel pane quotidiano un
potere salutare, fa servire il cibo al corpo e il corpo all'anima
(Opus imp. in Matth., 14, 11).
Ma perché diciamo "Dona
a noi" al plurale e non "A me"? Perché la cristiana carità vuole
che ciascuno non sia sollecito solo di sé, ma si preoccupi anche del prossimo e
nel pensare al proprio interesse, si ricordi anche di quello degli altri. A ciò
s'aggiunge il fatto che Dio concede i suoi doni non perché uno li possegga o
viva con essi nella mollezza, ma perché dia agli altri ciò che sopravanza ai
suoi bisogni. Così infatti scrivono i santi Basilio e Ambrogio: "Pane di
affamati è quello che tu detieni; vesti di uomini nudi sono quelle che tu tieni
chiuse a chiave; riscatto e liberazione di poveri è il denaro che tu nascondi
sotterra" (Basilio, Hom. Destruam,
7; Ambrogio, Sermo, 81).
399 "Oggi." Il
vocabolo ci ricorda la nostra comune infermità; poiché chi è colui che, senza
illudersi di poter con il suo lavoro provvedere per lungo tempo ai bisogni
della vita, non creda di potersi procacciare da sé il vitto almeno per un
giorno? Ma neppure questa fiducia in noi Dio ci permette, avendoci ordinato di
chiedere a lui il cibo di ogni singolo giorno. Questo per l'inoppugnabile
motivo che noi dobbiamo ogni giorno rivolgere a Dio la Preghiera domenicale,
come tutti i giorni abbiamo bisogno del pane.
15 Con il termine "pane" s'intendono anche i beni spirituali
400 Fin qui si è detto del
pane che alimenta il corpo e lo sostenta, pane distribuito ai fedeli e agli
infedeli, agli uomini pii e agli empi, per sublime misericordia di quel Dio che
fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e manda la pioggia sugli
ingiusti e sui giusti (Mt 5,45). Ma c'è anche un pane spirituale e noi lo
chiediamo con questa stessa preghiera: un pane con il quale viene designato
tutto ciò che è necessario in questa vita alla salute e all'integrità
dell'anima e dello spirito. Poiché come è vario il cibo che nutre e sostenta il
corpo, egualmente vario è l'alimento della vita spirituale e dell'anima.
Infatti, in primo luogo, è
cibo dell'anima la parola di Dio, come ha detto la Sapienza: "Venite,
mangiate del mio pane e bevete il vino che mesco a voi" (Prv 9,5). Quando
Dio toglie agli uomini la sua parola, cosa che avviene quando la gravità dei
nostri peccati più l'offende, si dice che il genere umano è oppresso dalla
fame. Così troviamo in Amos: "Manderò la fame sulla terra; non fame di
pane, ne sete d'acqua, ma della parola del Signore" (Am 8,11). Come
infatti il non poter prendere cibo o non ritenerlo è segno di morte non
lontana, così c'è grande motivo di disperare della salute di quelli che non
ricercano la parola di Dio o, se la conoscono, non la tollerano e rivolgono a
Dio le empie parole: "Scostati da noi, non vogliamo conoscere le tue
vie" (Gb 21,14), pazzia questa e cecità mentale, nella quale cadono coloro
che, toltisi alla dipendenza legittima dei loro capi cattolici, vescovi e
sacerdoti, e separatisi dalla santa Chiesa romana, si sono abbandonati agli
insegnamenti degli eretici, corruttori della parola di Dio.
Pane, inoltre, è Cristo
Signore, cibo dell'anima; egli stesso lo ha detto: "Io sono il pane vivo,
disceso dal cielo" (Gv 6,51). Non è possibile immaginare quanto piacere,
quanta gioia infonda nell'anima dei buoni questo pane, nello sconforto delle
lotte terrene o delle disgrazie della vita. Ce ne offre l'esempio il santo
collegio degli Apostoli, dei quali è detto: "Se ne andavano dal cospetto
del Sinedrio, lieti perché erano stati fatti degni di subire oltraggi per il
nome di Gesù" (At 5,41). Esempi simili ci forniscono le vite dei santi,
delle cui intime gioie così parla Iddio: "Al vincitore darò una manna
nascosta" (Ap 2,17).
Specialmente, poi, è pane
nostro Cristo Signore, sostanzialmente contenuto nel sacramento
dell'Eucaristia, pegno indicibile di amore, che egli ci donò sul punto di
tornare al Padre. Così egli ne parla: "Chi mangia la mia carne e beve il
mio sangue rimane in me e io in lui" (Gv 6,57); "Prendete e mangiate:
questo è il mio corpo" (Mt 26,26; 1 Cor 11,24).
I parroci cercheranno
insegnamenti utili al popolo fedele nei trattati sulla virtù e natura di questo
sacramento.
Lo diciamo qui pane nostro
perché appartiene soltanto ai fedeli: a coloro, cioè, che congiungendo l'amore
alla fede, lavano la sozzura dei peccati con il sacramento della Penitenza e,
non dimenticando di essere figli di Dio, prendono il divino sacramento e lo
onorano con la massima santità e venerazione. È poi chiamato quotidiano per due
ragioni: la prima, perché nei sacri misteri della santa Chiesa, ogni giorno si
offre a Dio e si da a quelli che, con pietà e santità, lo chiedono; l'altra,
perché dovremmo prenderlo ogni giorno o, almeno, vivere in modo da poterlo
ricevere degnamente ogni giorno, per quanto è possibile. Quelli che pensano
diversamente, che cioè non sia necessario nutrirsi del cibo spirituale che a
lunghi intervalli, ascoltino ciò che dice sant'Ambrogio: "Se il pane è
quotidiano, perché lo mangi una sola volta l'anno? " (De Sacram., 5, 4).
16 L'esito della domanda si deve lasciare a Dio
401 In modo speciale, per
questa preghiera, si devono esortare i fedeli, quando abbiano rettamente
indirizzato il pensiero e l'opera a procacciarsi le cose necessarie alla vita,
a lasciarne l'esito a Dio e ad affidare il loro desiderio alla volontà di lui
che non lascerà in eterno nell'incertezza il giusto (Sal 54,23), perché o Dio
concederà loro quel che desiderano e così il loro desiderio sarà soddisfatto,
oppure non lo concederà e questo rifiuto sarà segno certissimo che non era ne
salutare ne utile la cosa negata ai buoni, della cui salute egli ha maggior
cura che non loro medesimi. I parroci potranno illustrare questa verità spiegando
gli argomenti raccolti da sant'Agostino in modo mirabile nella sua lettera a
Proba (Epist. ad Probam, 130, 14,
26).
Si porrà termine
all'illustrazione di questa preghiera, ricordando ai ricchi di attribuire le
loro ricchezze a Dio e di pensare che in essi si sono accumulati tanti beni
perché li distribuiscano ai bisognosi. A questo tendono le parole dell'Apostolo
nella lettera a Timoteo (1 Tm 6,17), nella quale i parroci potranno attingere
grande efficacia di precetti divini per illustrare utilmente e salutarmente
questa verità.
16.1 Quinta domanda
RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI, COME NOI LI RIMETTIAMO
AI NOSTRI DEBITORI
In questa domanda si manifesta la somma carità di Dio
verso di noi
402 Sono molte le cose che
indicano l'infinita potenza di Dio, unita a pari saggezza e bontà, tanto che,
da qualunque parte si volga lo sguardo e il pensiero, si presentano subito
prove indubitabili della sua immensa potenza e misericordia. Però nulla
certamente serve meglio a porre in luce il sommo suo amore e la meravigliosa
sua carità verso di noi, dell'ineffabile mistero della passione di Gesù Cristo.
Da essa scaturisce quella fonte perenne, destinata a lavarci dalle sozzure dei
peccati, nella quale imploriamo, come Dio stesso ci ispira e ci largisce, di
essere immersi e purificati, quando gli chiediamo: "Rimetti a noi i nostri
debiti".
Questa domanda racchiude in
sé la somma dei beni, di cui, per Gesù Cristo, fu colmato il genere umano, come
insegna Isaia: "Le iniquità della casa di Giacobbe saranno rimesse e di
questo frutto essa godrà: il suo peccato sarà cancellato" (Is 27,9). Lo
prova anche David, quando chiama beati quelli che hanno potuto ottenere il
salutare frutto del perdono: "Beati coloro le cui iniquità sono state
perdonate" (Sal 31,1). Per tutto ciò, dunque, i pastori prendano in esame
ed espongano il valore di questa dottrina, tanto importante per farci
conseguire la beatitudine celeste.
Entriamo ora a considerare un
altro ordine di domande poiché fin qui abbiamo domandato a Dio non solo i beni
eterni spirituali, ma anche quelli della vita terrena, che sono caduchi; ora
invece preghiamo che allontani da noi i mali dell'anima e del corpo, di questa
come dell'eterna vita.
17 Disposizioni necessarie
403 Siccome per ottenere ciò
che domandiamo si richiede una retta maniera di domandare, ci sembra bene dire
in quali disposizioni d'animo devono essere quelli che vogliono chiederlo a
Dio. I parroci, perciò, insegneranno ai fedeli che chi voglia fare questa
preghiera, deve anzitutto riconoscere il proprio peccato; quindi esserne
turbato e addolorato; infine persuadersi che è volontà di Dio perdonare ai
peccatori che si pentono e si accingono a ciò che abbiamo detto. Infatti dal
duro ricordo e dal riconoscimento dei propri peccati non deve seguire quella
disperazione di ottenere il perdono che tormentò l'anima di Caino (Gn 4,13) e
di Giuda (Mt 27,4), che stimarono Dio soltanto vendicatore inesorabile e non
mite e misericordioso com'è. In questa preghiera l'animo deve essere tale che,
riconoscendo con dolore i nostri peccati, cerchiamo rifugio in Dio come presso
un padre e non come presso un giudice, e da lui imploriamo che agisca verso di
noi non secondo giustizia, ma secondo la sua misericordia.
Facilmente saremo portati a
riconoscere i nostri peccati, se presteremo ascolto a quanto Dio medesimo dice
e insegna nelle Sacre Scritture. Si legge in David: "Tutti hanno traviato,
tutti sono diventati inetti: non v'è chi faccia il bene, nemmeno uno" (Sal
13,3; 52,4) e Salomone: "Non c'è sulla terra uomo giusto che faccia il
bene e non pecchi" (Qo 7,20). A ciò si devono riferire queste altre
parole: "Chi può dire: "Mondo è il mio cuore, e sono puro da
peccato"? " (Prv 20,9). Egualmente scrisse san Giovanni, per
distogliere gli uomini dall'orgoglio: "Se diremo di non avere peccati, inganniamo
noi stessi e la verità non è in noi" (1 Gv 1,8). E Geremia: "Tu hai
detto: "Sono senza peccato e innocente: si allontani perciò l'ira tua da
me". Ebbene, ecco, io contenderò in giudizio con te, perché hai detto:
"Non ho peccato" " (Ger 2,35).
Tutte queste parole, che già
Cristo Signore aveva posto sulle loro labbra, egli stesso le conferma
prescrivendoci la preghiera con la quale ordina di confessare i nostri peccati.
L'autorità del Concilio Milevitano proibisce di interpretarla diversamente: "Se
qualcuno dice che le parole dell'Orazione domenicale: "Rimetti i nostri
debiti", siano dette dai santi per umiltà e non per convinzione, sia
scomunicato. Chi potrà, infatti, tollerare che uno, mentre prega, mentisca e
non davanti agli uomini, ma davanti a Dio, domandando con le labbra di essere
perdonato, quando nel suo cuore egli dicesse di non avere commesso i peccati di
cui chiede perdono?" (can. 8).
Ma nella necessità di
riconoscere i nostri peccati, non basta ricordarli con leggerezza; è necessario
invece che il ricordo sia acerbo, punga il cuore, stimoli l'animo e produca il
dolore. Perciò i parroci svolgeranno ampiamente e con cura questo punto,
affinché i fedeli non solo si ricordino dei loro misfatti e delle loro colpe,
ma si ricordino di essi con dolore e rimorso, in modo che, sentendosene
profondamente angustiati, ricorrano a Dio Padre e chiedano a lui di strappare
gli aculei del peccato che li dilaniano.
Né soltanto si studieranno i
parroci di far loro vedere la turpitudine dei peccati, ma anche l'indegnità e
sordidezza di noi uomini che, mentre non siamo che putrida carne e bassezza,
osiamo offendere la maestà incomprensibile, l'eccellenza indicibile di Dio, e
ciò in modo incredibile, essendo da lui creati, redenti e colmati di
innumerevoli e grandissimi benefici. E perché? Per andare, staccandoci da Dio
Padre nostro e sommo Bene, a venderci al demonio in schiavitù miserabile, per
la vergognosa mercede del peccato.
Poiché è indescrivibile la
crudeltà del dominio del diavolo negli animi di quelli che, sottrattisi al
soave giogo di Dio e spezzato l'amabile legame della carità con il quale il
nostro spirito è tenuto stretto a Dio nostro Padre, si son dati al suo acerrimo
nemico, chiamato nei Libri sacri "principe", o "rettore di
questo mondo" (Gv 12,31; 14,30; 16,11), "principe delle tenebre"
(Ef 6,12) e "re di tutti i figli della superbia" (Gb 41,25).
Ben si adattano queste parole
di Isaia a coloro che sono sottoposti alla tirannia del demonio: "O
Signore nostro Dio, altri padroni ci hanno posseduti all'infuori di te"
(Is 26,13).
Se la rottura del patto della
carità ci commuove poco, ci commuovano le calamità e i dolori nei quali
incorriamo per il peccato. Esso viola la santità dell'anima, sposa di Cristo;
profana il tempio del Signore, per cui dice l'Apostolo, contro quelli che lo
fanno: "Se qualcuno viola il tempio di Dio, Dio lo distruggerà" (1
Cor 3,17). Innumerevoli sono i mali che il peccato fa cadere sull'uomo, quasi
peste universale che David così ha espresso: "Non c'è sanità nella mia
carne, davanti alla tua collera; non v'è pace per le mie ossa, in presenza dei
miei peccati" (Sal 37,4). Confessando che nessuna parte di sé era rimasta
intatta dalla peste del peccato, riconosceva veramente l'entità di questa
piaga, poiché il veleno del peccato era penetrato nelle ossa, cioè aveva
infettato la ragione e la volontà, che pure sono le parti più ferme della
nostra anima. Le Sacre Scritture indicano quanto sia estesa questa peste,
quando chiamano i peccatori zoppi, sordi, muti, ciechi, paralitici in tutte le
membra.
Ma, oltre al dolore che
sentiva per la scelleratezza dei suoi peccati, più ancora era oppresso David
per l'ira di Dio che capiva rivolta contro di lui per il suo peccato, poiché
c'è guerra tra gli scellerati e Dio, incredibilmente ingiuriato dai loro
delitti. Dice infatti l'Apostolo: "L'ira e lo sdegno, la tribolazione e
l'angoscia, saranno nell'anima di ciascun uomo che fa il male" (Rm 2,8);
perché anche se l'azione del peccato passa, non passa la macchia e il reato;
l'ira di Dio sempre lo persegue come l'ombra segue il corpo.
Ma quando David fu ferito da
questo aculeo, fu eccitato a chieder perdono dei delitti commessi. L'esempio
del suo dolore e lo spirito di questo insegnamento i parroci li attingeranno
dal suo cinquantesimo salmo, per esperii ai fedeli uditori e istruirli, così,
con l'esempio del Profeta, al sentimento del dolore, cioè alla vera penitenza e
alla speranza del perdono.
Quanta utilità presenti
questo insegnamento, per imparare a sentir rimorso dei nostri peccati, lo
dichiara in Geremia Dio medesimo, quando, esortando alla penitenza Israele, lo
ammoniva di capire tutta l'importanza dei mali, conseguenza del peccato: "
"Vedi quanto è dannoso e doloroso l'avere abbandonato il Signore Dio tuo e
non avere più il timore di me", dice il Signore degli eserciti" (Ger
2,19). Cuore duro, di pietra, cuore di diamante, sono chiamati dai Profeti
Isaia (48,4), Ezechiele (36,26), Zaccaria (7,12) quelli che mancano del senso e
del rimorso delle loro colpe; poiché essi, come la pietra, non sono tocchi da
nessun dolore e nessun senso nutrono della vita e della resipiscenza salutare.
Ma per far sì che il popolo,
atterrito dalla gravita dei suoi peccati, non disperi di impetrare perdono, i
parroci dovranno richiamarlo alla speranza, ricordando che Cristo Signore diede
facoltà alla Chiesa di rimettere i peccati, come si dichiara nel rispettivo
articolo del Simbolo. D'altra parte egli ci dimostra con questa preghiera
quanto siano grandi la misericordia di Dio e la sua liberalità verso il genere
umano; perché se Dio non fosse sempre pronto a condonare i peccati ai
penitenti, non avrebbe mai prescritto questa formula di preghiera:
"Rimetti a noi i nostri debiti". Perciò dobbiamo tener sempre
presente nell'animo che colui che ci ha ordinato di invocare la sua paterna
misericordia con questa preghiera è dispostissimo anche ad accordarcela. Questa
petizione, infatti, implica la seguente dottrina: che Dio è disposto a
perdonare volentieri quelli che veramente si pentono. E contro Dio, infatti,
che noi pecchiamo, sottraendoci alla sua obbedienza, turbando, per quanto
dipende da noi, l'ordine della sua sapienza, offendendolo a fatti e a parole.
Ma egli è anche Padre
sommamente benefico e potendoci condonare qualunque colpa dichiara non solo di
volerlo fare, ma anche spinge lui stesso gli uomini a chiedergli perdono e
insegna loro con quali parole lo debbano fare.
Perciò nessuno potrà dubitare
che, con il suo aiuto, sia in nostro potere di conciliarci la sua grazia. E
poiché questa prova della volontà divina, propensa al perdono, solleva la
nostra fede, alimenta la speranza, infiamma la carità, vale la pena di
illustrare questo passo con alcune testimonianze divine ed esempi di uomini, ai
quali, quando si pentirono. Dio concesse il perdono di delitti anche gravissimi.
Ma poiché abbiamo svolto questo tema, quando l'argomento lo richiedeva, nel
proemio a questa preghiera e nella parte del Simbolo che tratta della
remissione dei peccati, i parroci attingano di là tutte le ragioni e gli esempi
idonei all'illustrazione di questo punto; altri ne attingeranno alla fonte
della Sacra Scrittura.
18 Sotto il nome di "debiti" s'intendono i peccati
404 Essi seguiranno anche qui
la norma da noi raccomandata per le altre domande, sicché i fedeli capiscano
che cosa voglia dire la parola "debiti", affinché non abbiano a
chiedere, ingannati dall'ambiguo senso, cose diverse da ciò che devono.
Occorre intanto sapere che
noi non chiediamo che ci venga rimesso il debito d'amore che dobbiamo
professare a Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e la mente, il cui
assolvimento è necessario alla salvezza. Sotto il nome di debito si comprendono
l'obbedienza, il culto, la venerazione e qualsiasi altro dovere; però noi non
domandiamo la remissione di questo dovere, ma solo di essere liberati dai nostri
peccati.
Così interpretò la parola san
Luca (11,4), usando il termine "peccati" al posto di debiti. I
peccati sono debiti perché con il commetterli diventiamo rei davanti a Dio e
sottoposti al debito di una pena, che scontiamo soddisfacendo o soffrendo. Di
questo genere di debito parlò Cristo Signore per bocca del Profeta: "Ciò
che non ho rubato devo restituire" (Sal 68,5); da queste parole si desume
che non solo siamo debitori, ma anche incapaci di pagare, non potendo in nessun
modo il peccatore soddisfare da se stesso.
Perciò dobbiamo cercare
rifugio nella misericordia divina e siccome a essa corrisponde una eguale
giustizia, di cui Dio è rigido amministratore, dobbiamo fare uso della
preghiera e dell'aiuto della passione del Signore nostro Gesù Cristo. Senza di
questa nessuno mai ottenne il perdono dei peccati, mentre da essa è sempre
scaturita, come da fonte, tutta l'efficacia e il valore della soddisfazione.
Infatti il prezzo pagato da Cristo Signore sulla croce e trasferito in noi in
virtù dei sacramenti ricevuti realmente o con il desiderio, è di tanto peso da
impetrare per noi e operare in noi ciò che chiediamo in questa preghiera, ossia
la remissione dei peccati.
Qui non preghiamo soltanto
per ottenere perdono dei lievi e facili errori, ma anche dei peccati più gravi
e funesti. Però la nostra preghiera avrà peso sulla gravita dei nostri delitti
soltanto attraverso il sacramento della Penitenza, ricevuto di fatto oppure con
il desiderio, come già abbiamo spiegato.
19 Sono chiamati "nostri" i debiti, perché commessi volontariamente
405 Ma noi chiamiamo
"nostri" i debiti per ben altra ragione che quella per la quale
dicemmo nostro il pane. È nostro quel pane, perché dato a noi in dono da Dio; i
peccati sono nostri, in quanto la loro colpa risiede in noi e sono fatti per
volontà nostra; né essi avrebbero natura di peccato, se non fossero volontari.
Noi dunque, riconoscendo e confessando la colpa, imploriamo la necessaria
clemenza di Dio. Né ci serviamo di scusa alcuna e non ne attribuiamo la
responsabilità ad altri, come fecero i progenitori. Adamo ed Eva (Gn 3,12.13);
ma noi stessi ci chiameremo colpevoli, facendo nostra la preghiera del Profeta,
se vogliamo essere saggi: "Non piegare il mio cuore a pensieri cattivi,
sicché non cerchi scuse ai miei peccati" (Sal 140,4).
20 Domandiamo che vengano rimessi "a noi", perché dobbiamo essere solleciti della salute di tutti
406 Né diciamo rimetti a me,
ma "a noi", perché la fraterna convivenza e carità fra tutti gli
uomini esigono da ciascuno di noi sollecitudine della salute del prossimo,
cosicché quando preghiamo per noi, preghiamo anche per gli altri.
Quest'abitudine, tramandataci da Cristo Signore e dalla Chiesa di Dio ricevuta
e costantemente conservata, fu in special modo osservata dagli Apostoli che
fecero sì che la diffondessero anche gli altri. Preclaro esempio di preghiera
per la salute del prossimo, fatta con desiderio e zelo ardente, ci offre
nell'Antico e nel Nuovo Testamento l'esempio dei santi Mosè e Paolo; il primo
pregava Dio con queste parole: "Rimetti loro questo fallo; oppure, se non
lo fai, cancella me dal tuo libro" (Es 32,31); l'altro diceva:
"Desidero di essere io stesso fatto anatema da Cristo per i miei
fratelli" (Rm 9,3).
21 La particella "come" ha valore di similitudine e di condizione
407 "Come noi li
rimettiamo ai nostri debitori." La particella "come" si può
intendere in due modi; infatti ha forza di similitudine quando chiediamo a Dio
che, allo stesso modo che perdoniamo le ingiurie e le contumelie a coloro che
ci hanno offesi, così egli condoni a noi i nostri peccati. Denota pure
condizione; in questo senso l'interpreta Cristo Signore in quel detto: "Se
perdonate agli uomini le loro mancanze, perdonerà a voi il Padre celeste i
vostri peccati; ma se non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro
perdonerà a voi le vostre mancanze" (Mt 6,14).
Tanto nell'uno quanto
nell'altro significato risalta per noi la necessità di perdonare; se vogliamo
che Dio ci conceda il perdono dei nostri peccati, è necessario che noi
cominciamo con il perdonare coloro dai quali ricevemmo offesa. Anzi Dio tanto
esige da noi di dimenticare i torti e di sentire mutua carità, da rigettare e
disprezzare i doni e i sacrifici di coloro che non si sono riconciliati con il
perdono.
Anche la legge di natura
richiede che ci mostriamo verso gli altri quali desideriamo che essi siano con
noi e impudente oltre ogni dire sarebbe colui che domandasse a Dio la
remissione dei suoi peccati e conservasse poi l'animo suo ostile verso il
prossimo. Perciò devono essere sempre pronti al perdono coloro che hanno subito
un'offesa. A ciò li spinge fortemente questa preghiera e l'ordine di Dio che
troviamo in san Luca: "Se tuo fratello pecca verso di tè, riprendilo e, se
è pentito, perdonagli. Se avrà peccato contro di te sette volte al giorno e sette
volte al giorno ritorna a tè dicendo: "Me ne pento", perdonagli"
(Lc 17,3). Nel Vangelo di san Matteo si legge: "Amate i vostri
nemici" (Mt 5,44). L'Apostolo ancora, e prima di lui Salomone, ha scritto:
"Se il tuo nemico ha fame, nutrito; se ha sete, dagli da bere" (Rm
12,20; Prv 25,21). Lo stesso si riscontra in san Marco Evangelista:
"Quando state pregando, se avete qualche cosa contro qualcuno, perdonate,
affinché il Padre vostro nei cieli vi perdoni anch'egli i vostri falli"
(Mc 11,25).
22 Motivi del perdono
408 Ma poiché nulla
forse si compie con maggiore riluttanza, per difetto della nostra depravata
natura, che il perdono delle ingiurie, i parroci dovranno ricorrere a tutta la
loro forza d'ingegno e d'animo, per cambiare e piegare l'animo dei fedeli a
questa mitezza e a questo amore così necessari al cristiano. Indugino nel
riferire i testi sacri, nei quali si può udire Dio che ordina il perdono dei
nemici.
Proclamino ancora questa
verità assoluta e di grande efficacia sull'animo dell'uomo: che essi sono figli
di Dio, purché siano facili a perdonare le ingiurie e amino di cuore i loro
nemici. Nell'amare i nemici traspare la somiglianza nostra con Dio nostro
Padre, il quale si riconciliò con il genere umano, a lui così nemico e molesto,
redimendolo dall'eterna morte con la morte del proprio Figlio. Serva anche di
esortazione e di precetto l'ordine del Signore nostro Gesù Cristo, che noi non
possiamo non osservare senza gran disonore e danno: "Pregate per quelli
che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che
è nei cieli" (Mt 5,44).
Qui si richiede nel parroco
prudenza non comune, perché qualcuno, conoscendo la difficoltà e nello stesso
tempo la necessità del precetto, non disperi della salute. Infatti vi sono di
quelli che, comprendendo il dovere di lasciar passare le ingiurie,
dimenticandole di proposito, e di amare quelli che li hanno offesi, desiderano
adempiere a questo dovere e con tutte le loro forze vi si adoperano, ma sentono
infine di non avere la forza di dimenticare completamente le ingiurie patite,
poiché rimane nel loro animo qualche resto di avversione. Perciò sono
tormentati da grandi agitazioni di coscienza, nella paura di non conformarsi
all'ordine dato da Dio, per non aver deposta qualsiasi inimicizia semplicemente
e sinceramente. I pastori, allora, spiegheranno gli impulsi contrari della
carne e dello spirito e come quella sia proclive alla vendetta, questo al
perdono e la lotta che dura perpetua tra di essi. Dimostreranno che non si deve
affatto temere per la propria salute, a causa delle passioni della nostra
natura corrotta che è in contrasto e in rivolta contro la ragione, purché lo
spirito persista nel suo compito e nella volontà di perdonare le ingiurie e di
amare il prossimo.
Se poi ci sono di quelli che
non riescono ancora a indurre il loro animo ad amare i nemici, dimenticandone
le ingiurie ricevute, e perciò, temendo di non conformarsi alla condizione
richiesta in questa petizione, non osano fare la Preghiera domenicale, i
parroci addurranno queste due ragioni, per liberarli da simile dannoso errore.
Ognuno dei fedeli fa queste preghiere a nome di tutta la Chiesa, nella quale
bisogna pure che ci siano alcuni che hanno condonato i debiti di cui abbiamo
parlato. C'è poi questo: con tale domanda chiediamo a Dio che ci conceda anche
tutto ciò che è necessario a farci trovare favorevole ascolto presso di lui.
Chiediamo infatti il perdono dei peccati, il dono della vera penitenza, il
dolore interno, la forza di aborrire i peccati e di poterli confessare al
sacerdote in tutta sincerità e devozione.
Essendo necessario, pertanto,
anche per noi perdonare a coloro che ci avranno causato del danno o del male,
quando preghiamo Dio che ci perdoni, nello stesso tempo invochiamo da lui la
forza di riconciliarci con quelli che odiamo. Perciò si devono distogliere
dalla loro opinione quelli che sono turbati dall'inane e colpevole timore di
irritare maggiormente Dio con questa preghiera e invece esortarli a farla
frequentemente, domandando a Dio padre che infonda loro la capacità di
perdonare a quelli che li hanno offesi e di amare i nemici.
Perché la domanda sia
fruttuosa, si richiedono nel peccatore la contrizione dei peccati e il
proposito di non più peccare
409 Perché questa domanda sia
davvero fruttuosa, nel farla dobbiamo tener fisso il pensiero a questo: noi
supplichiamo e chiediamo una grazia che non è accordata se non a colui che si
pente. Pertanto dobbiamo ispirarci a quella carità e devozione che si conviene
ai penitenti e conviene loro appunto che, avendo i loro peccati quasi davanti
agli occhi, li espiino con le lagrime. A questo pensiero si deve aggiungere la
promessa di evitare le circostanze in cui prima ci era avvenuto di peccare e
che ci darebbero nuovo modo di offendere il Dio nostro Padre. Questo pensiero
aveva David, quando diceva: "II mio peccato mi sta sempre davanti"
(Sal 50,5); e altrove: "Bagnerò ogni notte il mio letto e irrigherò di
lacrime il mio giaciglio" (Sal 6,7).
Inoltre ognuno, nel pregare,
abbia sempre presente l'ardentissimo zelo di quanti, con preghiere, hanno
ottenuto da Dio il perdono dei loro peccati: l'esempio di quel pubblicano che,
standosene lontano nel tempio per il dolore e la vergogna, con gli occhi fissi
a terra, non faceva che battersi il petto, dicendo: "Dio, abbi misericordia
di me peccatore" (Lc 18,13); quello della donna peccatrice che, tenendosi
dietro a Cristo Signore gli bagnava i piedi con le lagrime e, asciugatili coi
propri capelli, glieli baciava (Lc 7,38); e ancora l'esempio di Pietro,
principe degli Apostoli, che, uscito fuori dell'atrio, pianse amaramente (Mt
26,75).
Si tenga in mente che più gli
uomini sono deboli e propensi alle malattie dell'animo, cioè ai peccati, tanto
più hanno bisogno di molte e frequenti medicine e medicine dell'anima sono la
Penitenza e l'Eucaristia che il popolo fedele deve usare molto spesso.
Viene poi l'elemosina che,
come dicono le Sacre Scritture, è medicina adatta a sanare le ferite
spirituali; perciò, quelli che desiderano fare questa preghiera con vera pietà,
pensino a fare il bene ai poveri. L'angelo di Dio san Raffaele mostra in Tobia
quanta forza essa abbia nel lavare la macchia dei peccati: "L'elemosina
libera dalla morte, purga dai peccati e fa trovare misericordia e vita
eterna" (Tb 12,9). Lo attesta anche Daniele quando così consiglia il re
Nabucodonosor: "Riscatta i tuoi peccati con le elemosine e le tue iniquità
con atti di misericordia verso i poveri" (Dn 4,24).
Ma la migliore delle
elargizioni, anzi il modo migliore di usare misericordia, è il dimenticare le
offese e avere buona disposizione d'animo verso chi ti avrà colpito nel
patrimonio, nella fama, nel corpo tuo o dei tuoi. Chiunque, insomma, desidera
che Dio sia molto misericordioso verso di lui, regali a Dio le proprie
inimicizie, perdoni ogni offesa, preghi con amore per i nemici, afferrando ogni
occasione di ben meritare verso di essi.
Ma qui rimandiamo i parroci al luogo dove trattammo dell'omicidio e
sviluppammo questo argomento. Li esortiamo però a concludere su questa domanda
tacendo notare che non c'è cosa più ingiusta di colui che, essendo duro con gli
altri uomini, al punto di non usare indulgenza per nessuno chiede che Dio sia mite e
benigno verso di lui.
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