Quarto comandamento
ONORA IL PADRE E LA MADRE E VIVRAI A LUNGO
SULLA TERRA CHE IL SIGNORE DIO TUO TI DONERÀ
1 Natura ed estensione del comandamento
319 Sebbene dal punto di
vista della dignità e della nobiltà del loro oggetto i precedenti comandamenti
siano superiori, quelli che ora incontriamo sono così necessari da meritare
giustamente di essere trattati subito dopo. Se i primi mirano direttamente al
nostro ultimo fine che è Dio, gli altri ci formano all'amore del prossimo e,
sebbene con giro più ampio, ci riconducono anch'essi a Dio, per amore del quale
circondiamo di carità il nostro prossimo. Per questo Gesù Cristo definì simili
i due precetti dell'amore di Dio e del prossimo (Mt 22,39; Mc 12,31).
È arduo esprimere a parole le
ripercussioni benefiche di questa carità del prossimo, che produce frutti
abbondanti e squisiti, oltre a essere segno della pronta obbedienza al primo
fondamentale precetto. Dice san Giovanni: "Chi non ama il proprio fratello
che egli vede sensibilmente, come potrà amare Dio che non vede? " (1 Gv
4,20). Analogamente, se non rispettiamo e non amiamo i genitori, cui dobbiamo
secondo Dio tanto ossequio e che ci sono sempre al fianco, quale tributo di
onore saremo mai capaci di sciogliere a Dio sommo e ottimo padre, che sfugge a
ogni sensibile percezione? Si capisce dunque la stretta affinità dei due
precetti.
L'ambito di questo
comandamento è vastissimo. Oltre a coloro che ci generarono, sono parecchi
coloro che dobbiamo rispettare come i genitori, a causa della loro autorità,
della loro dignità, per i vantaggi che ci arrecano o l'eminente ufficio che
occupano. Il precetto inoltre facilita il compito dei genitori e, in genere, di
tutti i superiori, chiamati a far sì che quanti vivono sotto il loro potere si
uniformino alla Legge divina.
Tutti costoro troveranno la
loro missione più agevole, se sarà universalmente e praticamente compreso che,
per volere di Dio, si deve tributare il più profondo rispetto ai propri
genitori. Per ottenere tale intento, è necessario conoscere la differenza che
sussiste fra i precetti della prima e quelli della seconda tavola.
2 Differenza dei tre primi precetti dagli altri
320 Perciò il parroco spieghi
al popolo queste verità, ricordando anzitutto che i precetti del Decalogo
furono incisi su due tavole. Nella prima, come apprendiamo dai santi Padri,
erano contenuti i tre già esposti; gli altri erano scolpiti nella seconda
tavola. Tale distribuzione ci fu opportunamente proposta, affinché l'ordine
stesso materiale servisse a distinguere la natura dei precetti. Tutto ciò
infatti che nella Sacra Scrittura è comandato o vietato da una legge divina,
rientra in uno dei due generi di azioni a seconda che vi sia incluso l'amore
verso Dio o l'amore verso il prossimo. I primi tre comandamenti su esposti
inculcano l'amore verso Dio; gli altri sette abbracciano i rapporti sociali fra
gli uomini.
Si capisce quindi
perfettamente la ragione per cui viene fatta la distinzione e così alcuni comandamenti
sono riportati alla prima tavola, gli altri alla seconda. L'argomento
soggiacente ai tre primi precetti, di cui abbiamo già parlato, è Dio, vale a
dire il sommo bene: per gli altri è il bene del prossimo. Quelli mirano al
supremo amore, questi a un amore più vicino; quelli riguardano il fine ultimo,
questi i mezzi per raggiungerlo.
Inoltre l'amore di Dio poggia
su Dio stesso; Dio infatti deve essere amato in grado sommo, per se stesso, non
già a causa di altri. Invece l'amore del prossimo scaturisce dall'amore di Dio
e a esso va rapportato come a una regola fissa. Amiamo infatti i genitori,
obbediamo ai padroni, rispettiamo i superiori, specialmente perché Dio li creò
e volle che fossero costituiti in autorità, perché con la loro opera egli regge
e tutela l'umana collettività. Dio impone di prestare ossequio a tali persone e
noi lo prestiamo perché esse ricevono da Dio l'investitura della loro dignità;
sicché la deferenza verso i genitori deve rivolgersi più a Dio che agli uomini.
A proposito della riverenza
dovuta ai superiori, in san Matteo si legge: "Chi accoglie voi, accoglie
me" (Mt 10,40). E l'Apostolo nella lettera agli Efesini, istruendo i
servi, ammonisce: “O servi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne,
temendo e tremando, nella semplicità del vostro cuore, come obbedireste, a Gesù
Cristo, non adempiendo il vostro dovere per essere visti e bramosi di piacere
agli uomini, ma come servi di Gesù Cristo" (Ef 6,5).
Occorre inoltre riflettere
che non c'è onore, venerazione o culto prestato a Dio, che possano dirsi degni,
potendo l'amore di Dio essere intensificato all'infinito. È necessario perciò
che il nostro amore di Dio divenga di giorno in giorno più ardente. Per suo
stesso comando dobbiamo amarlo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con
tutte le nostre forze. L'amore invece con cui abbracciamo il prossimo, ha
limiti ben definiti, poiché Dio comanda di amare i nostri fratelli come noi
stessi (Mt 22,37; Lc 10,27).
Chi travalichi questi
confini, in modo da amare di un uguale amore Dio e il prossimo, commette in
realtà gravissima colpa.
Dice perciò il Signore:
"Se uno viene da me e non odia il padre, la madre, la moglie, i figlioli,
i fratelli, le sorelle e perfino la sua vita, non può essere mio
discepolo" (Lc 14,26). Con il medesimo spirito è stato pure ingiunto:
"Lascia che i morti seppelliscano i loro morti" (Lc 9,60). Così disse
Gesù a un tale che mostrò desiderio di volere prima sotterrare il proprio padre
e poi seguire il Signore. Più esplicita spiegazione di questa differenza è in
san Matteo: "Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di
me" (Mt 10,37). Eppure non può cadere dubbio sul dovere di amare e
rispettare profondamente i propri genitori. Perché sussista la vera pietà,
tuttavia, occorre che il più eminente onore e culto sia tributato a Dio, padre
e causa di tutto. Di modo che i genitori mortali devono essere amati in maniera
tale che tutta l'intrinseca forza dell'amore sia rivolta al Padre celeste ed
eterno: qualora i comandi paterni siano in contrasto con i comandamenti di Dio,
i figli antepongano senza esitazione la volontà divina al volere dei genitori,
memori del motto divino: "Occorre obbedire a Dio prima che agli
uomini" (At 5,29).
3 Il significato della parola "onorare"
321 Proseguendo, il parroco
spiegherà le parole del comandamento e anzitutto il significato del vocabolo
"onorare". Esso significa nutrire verso qualcuno un elevato concetto
e fare il massimo conto di tutto ciò che gli appartiene. In tale onore sono
conglobati l'amore, l'ossequio, l'obbedienza, la riverenza. A ragion veduta,
nella formula del comandamento è inserita la parola "onore", anziché
quella di amore o di timore, sebbene i genitori debbano pure essere vivamente
amati e temuti. Chi ama, infatti, non sempre ossequia e obbedisce e chi teme,
non sempre ama; invece quando si onora qualcuno schiettamente, lo si ama e lo
si rispetta.
Premesso ciò, il parroco
tratterà dei genitori, mostrando chi siano coloro che vanno sotto questo nome.
Sebbene la Legge alluda prevalentemente a quei genitori da cui abbiamo tratto
la vita, tuttavia l'appellativo spetta anche ad altri, contemplati parimenti
dalla Legge, com'è facile arguire da molti passi scritturali.
Oltre ai nostri genitori,
compaiono nelle Sacre Scritture altre categorie di "padri", a
ciascuno dei quali è dovuto il debito onore. Anzitutto son chiamati padri i
reggitori, i pastori, i sacerdoti della Chiesa, come risulta dall'Apostolo, che
scrive ai Corinzi: "Non vi dico ciò per mortificarvi, ma vi ammonisco
quali figli diletti. Anche se avete avuto diecimila pedagoghi in Gesù Cristo,
non avete avuto molti padri. Io solo vi ho generato in Gesù Cristo, mediante il
Vangelo" (1 Cor 4,14). E nel Siracide
sta scritto: "Sciogliamo lodi ai personaggi gloriosi, ai nostri padri
nella loro generazione" (44,1).
Son detti, in secondo luogo,
"padri" coloro che sono rivestiti di comando, di autorità
giudiziaria, di potere e governano quindi lo Stato. Naaman, per esempio, è
chiamato padre dai servi (2 Re 5,13).
Inoltre diamo il nome di
padri a coloro, la cui tutela, cura e saggia probità costituiscono garanzia per
altri. Tali appaiono i tutori, i curatori, i pedagoghi, i maestri. Così i figli
dei Profeti chiamavano padri Elia ed Eliseo (2 Re 2,12; 13,14). Infine,
nominiamo padri i vecchi e gli avanzati in età, a cui pure dobbiamo riverente
ossequio.
Nelle sue ammonizioni il
parroco insista molto sul dovere di onorare i padri di ogni genere, ma
soprattutto coloro che ci han dato la vita. A essi allude particolarmente la
Legge divina, essendo essi per dir cosi, un'immagine del Dio immortale e
offrendoci il segno della nostra origine. Ne ricevemmo la vita; se ne servì Dio
per infonderci lo spirito immortale; ci trassero ai sacramenti, ci educarono
alla religione, alla cultura, alla vita civile, alla integrità santa dei costumi.
II parroco spiegherà in
seguito come il termine "madre" sia qui giustamente menzionato,
perché siano da noi apprezzati i benefici e i titoli di merito della madre
nostra, ricordando la trepidante cura con cui ci portò nel grembo e il
travaglio penoso con cui ci diede alla luce e ci educò.
4 Amore verso i genitori
322 II nostro contegno verso
i genitori deve essere tale che l'onore loro tributato appaia scaturito
dall'amore e dall'intimo sentimento dell'animo. Tutto ciò per stretto dovere di
reciprocità, poiché essi nutrono tali sentimenti verso di noi, che non
rifuggono da nessuna fatica, disagio e rischio per il nostro bene e nulla
arreca loro più letizia dell'affetto intimo dei figli diletti. Giuseppe,
costituito in Egitto in posizione affine a quella del re per dignità e potere,
accolse con ogni manifestazione di ossequio il padre venuto in Egitto (Gn
46,29) e Salomone si fece incontro alla madre che sopraggiungeva, ossequiandola
e collocandola alla sua destra nel trono reale (1 Re 2,19).
Vi sono altre maniere di
manifestare il rispetto dovuto ai genitori. Li onoriamo infatti anche quando
imploriamo da Dio che conceda loro prosperità in ogni evento, li faccia
rispettati e accetti fra gli uomini e li renda degni del suo compiacimento e di
quello di tutta la corte celeste.
Similmente prestiamo ossequio
ai genitori, subordinando il nostro parere alla loro volontà e al loro
giudizio. Ce ne ammonisce Salomone: "Presta ascolto, figlio mio,
all'autorità di tuo padre e non dimenticare i precetti della madre tua; si
aggiungerà così grazia al tuo capo e una collana al tuo collo" (Prv 1,8).
Fanno eco le esortazioni di san " Paolo: "O figli, obbedite nel
Signore ai vostri genitori, com'è giusto" (Ef 6,l). E altrove:
"Figli, obbedite sempre ai vostri genitori, come piace al Signore"
(Col 3,20). Confermano gli esempi dei santi: Isacco, tratto legato al
sacrificio, obbedisce umilmente senza protestare (Gn 22,8s); i Recabiti, per
non trasgredire il consiglio paterno, si astennero per sempre dal vino (Ger
35,6).
Onoriamo pure i nostri
genitori imitandone le buone azioni e i retti costumi: equivale a esprimere
loro il più alto senso di ossequio cercare di imitarli quanto più è possibile.
E li onoriamo ancora, non
solo ricercandone, ma attuandone i consigli.
Li onoriamo anche provvedendo
tutto ciò che il loro mantenimento e il benessere esigono. Lo prova la
testimonianza esplicita di Gesù Cristo che, rimproverando ai Farisei la loro
empietà, esclama: "E perché anche voi trasgredite il comando di Dio in
grazia della vostra tradizione? Dio infatti ha detto: "Onora il padre e la
madre" e: "Chi maledirà il padre o la madre, sia punito di
morte". Voi invece dite: "Chiunque dica al padre o alla madre: 'Sia
offerta di sacrificio quello con cui potrei aiutarti' non è più obbligato a onorare
il padre o la madre" e così con la vostra tradizione avete annientato il
comandamento di Dio" (Mt 15,3).
Se dobbiamo assolvere il
nostro obbligo di rispetto verso i genitori in ogni momento, il dovere si fa
più urgente in occasione delle loro gravi infermità. Cureremo allora che non
tralascino nulla di quanto spetta alla confessione dei peccati e agli altri
sacramenti necessari al cristiano, mentre la morte si approssima. E faremo di
tutto perché possano vedere di frequente persone pie e religiose, capaci di
sostenerne e corroborarne con il consiglio la debolezza o di indirizzarne i
buoni sentimenti verso la speranza dell'immortalità. Sottratto così lo spirito
a ogni preoccupazione umana, tutto lo rivolgano a Dio e in mezzo al corteggio
beatissimo della fede, della speranza e della carità, muniti di tutti i
conforti religiosi, non riterranno ormai temibile la morte, dal momento che è
necessaria, ma anzi desiderabile, in quanto schiude l'adito all'eternità.
Infine può rendersi onore ai
genitori anche dopo che sono trapassati, curandone i funerali, preparandone le
esequie, dando loro conveniente sepoltura, provvedendo alla celebrazione degli
anniversari, adempiendone regolarmente la volontà testamentaria.
5 L'onore ai prelati e ai principi
323 Meritano la nostra
riverenza, oltre ai nostri genitori, anche gli altri che portano il nome di
padri. Tali sono i vescovi, i sacerdoti, i re, i principi, i magistrati, i
tutori, i curatori, i maestri, i pedagoghi, i vecchi e altri. Tutto costoro
sono degni di ricevere, sebbene in varia misura, qualche tributo del nostro
affetto, della nostra obbedienza e delle nostre sostanze.
Sta scritto a proposito dei vescovi e degli altri pastori:
"I sacerdoti che adempiono degnamente il loro ministero siano ritenuti
meritevoli di un duplice onore, specialmente coloro che si distinguono nel
ministero della parola e nella dottrina" (1 Tm 5,17). Quante prove di
attaccamento non diedero i Calati all'Apostolo? Egli ne dà loro testimonianza
palmare, ispirata a benevolenza: "Riconosco che; se fosse stato possibile,
voi vi sareste strappati gli occhi per darmeli" (Gal 4,15).
Ai sacerdoti devono essere
fornite le risorse necessarie al sostentamento della vita. Onde l'Apostolo
chiede: "Chi ha mai portato le armi a proprie spese?" (1 Cor 9,7). E
nel Siracide è detto: "Rispetta
i sacerdoti. Da a essi la parte loro, come t'è stato comandato: le primizie e
[la vittima] d'espiazione" (7,31). Anche l'Apostolo insegna che si deve
loro obbedire: "Siate sottomessi ai vostri superiori ed eseguitene i comandi.
Essi vigilano, essendo tenuti a rendere ragione delle anime vostre" (Eb
13,17). Anzi, da nostro Signore Gesù Cristo è stato esplicitamente dichiarato
che dobbiamo sottostare ai pastori, anche se malvagi: "Sulla cattedra di
Mosè si assisero gli scribi e i farisei.
Osservate e fate pertanto ciò
che vi diranno; ma non fate secondo le opere loro: che dicono e non fanno"
(Mt 23,2).
Lo stesso dicasi a proposito
dei re, dei principi, dei magistrati, di tutto coloro insomma al cui potere
siamo soggetti. L'Apostolo, nella lettera ai Romani, spiega ampiamente quale
genere di rispetto, di ossequio e di sudditanza debba essere loro prestato
(13,1); inculca anche di pregare per loro (1 Tm 2,2). San Pietro raccomanda:
"Siate sottomessi a ogni creatura umana, in vista di Dio: così al re,
quale sovrano, come ai subalterni, quali suoi delegati" (1 Pt 2,13). In
verità l'ossequio che tributiamo loro va riferito a Dio. Infatti l'eminente
grado della dignità esige rispetto dagli uomini, perché implica un'analogia con
il potere divino. Rispettandolo, del resto, veneriamo la provvidenza di Dio,
che conferisce ai dignitari la funzione pubblica e di essi si serve come di
delegati della propria potestà.
Qualora i magistrati si
rivelino malvagi ed empi, noi non onoriamo i loro vizi, ma l'autorità divina
che è in essi. Potrà forse apparire cosa incredibile, ma è pur vero che per
quanto siano implacabilmente ostili a noi, non possiamo trovare in questo fatto
una ragione sufficiente per negare ossequio a coloro che sono costituiti in autorità.
Sappiamo dei servizi prestati
da David a Saul, sebbene a lui inimicissimo, onde poteva esclamare: "Mi
mostrai pacifico verso coloro che odiavano la pace" (Sal 119,7). Qualora
però comandino cosa malvagia e iniqua, tralasceremo di prestar loro ascolto;
perché allora non parlano più in virtù di un potere legittimo, ma in base a un
titolo ingiusto e a una perversione dell'animo.
6 Premio spettante a chi osserva questo comandamento
324 Spiegato minutamente
tutto questo, il parroco mostri quale premio sia riservato a coloro che
obbediscono a questo divino precetto. Il suo frutto più notevole è che vivranno
a lungo; poiché in verità son degni di godere quanto più a lungo è possibile di
tale beneficio coloro che ne conservano perenne memoria. Ora, chi onora i
propri genitori mostra gratitudine per la vita e l'educazione ricevuta; è
giusto, dunque, e conveniente che viva fino alla più tarda vecchiaia.
Si aggiunga quell'insigne
spiegazione della divina promessa, che garantisce non solo il godimento della
vita eterna beata, ma anche di questa vita terrena. Dice infatti san Paolo:
"La pietà giova a tutto, comprendendo in sé la promessa della vita
presente e della futura" (1 Tm 4,81. Ne si tratta di un compenso tenue e
spregevole, sebbene a uomini ricolmi di santità, quali Giobbe, David, Paolo, la
morte sia apparsa desiderabile e per uomini piombati nella miseria e nei dolori
il prolungamento della vita non rappresenti una gioia. Poiché la clausola che
delucida quelle parole: "La vita che il Signore ti donerà promette
evidentemente non solo il prolungamento dell'esistenza, ma anche serenità e
tranquilla incolumità di vita. Nel Deuteronomio infatti alle parole:
"Affinché tu campi lungo tempo", sono aggiunte le altre:
"Affinché tutto avvenga per tè favorevolmente" (Dt 5,16); parole che
sono poi ripetute dall'Apostolo (Ef 6,3).
Noi affermiamo che cedesti
beni sono il sovrappiù, per coloro la cui pietà viene ricompensata da Dio. Se
così non fosse, la promessa divina non sarebbe costantemente fedele, poiché
talora è più breve l'esistenza di coloro che dimostrano più profonda riverenza
verso i loro genitori. Ciò può accadere per molte ragioni. Può essere anzitutto
provvidenziale per essi uscir di vita prima di abbandonare il sentiero della
virtù e della rettitudine religiosa. Alcuni possono essere sottratti al mondo,
affinché il male non faccia deviare il loro intelletto e la seduzione non
affascini il loro spirito (Sap 4,11).
Altri possono essere
strappati al corpo quando sia imminente uno sconvolgimento generale delle cose,
sicché sfuggano la sventura dei tempi. Dice infatti il Profeta: "Dal volto
del male è stato allontanato il giusto" (Is 57,1). In tal caso si evita il
rischio della loro virtù e della loro salvezza, quando la giustizia e il
castigo sono esercitati da Dio sui mortali o si risparmia loro l'amarissimo
lutto del cuore di fronte alle disgrazie dei parenti e degli amici.
Sicché dovremmo molto temere
quando accade che i buoni muoiano innanzi tempo.
7 Castigo che attende i trasgressori
325 D'altro canto, se su coloro
che sono riconoscenti verso i propri genitori piovono le ricompense di Dio,
fierissimi castighi sono riservati ai figli snaturati e ingrati. Sta scritto:
"Chi avrà lanciato imprecazioni a suo padre e a sua madre, morrà di morte
violenta" (Es 21,17; Lv 20,9); "Chi rattrista suo padre e scaccia sua
madre è un essere obbrobrioso e disgraziato" (Prv 19,26); "La lucerna
di colui che avrà bistrattato suo padre o sua madre si spegnerà nel più tolto
delle tenebre" (Prv 20,20); "L'occhio di colui che sogghigna a suo
padre e irride al parto della madre sua sia scavato dai corvi dei torrenti e
divorato dai figli dell'aquila" (Prv 30, 17). Leggiamo nella Sacra
Scrittura che molti recarono offesa ai loro genitori, ma leggiamo pure che
l'ira di Dio infierì per trame vendetta; egli non lasciò David invendicato, ma
alla scelleratezza di Assalonne impose il dovuto castigo, punendolo, a causa
del suo peccato, con tre colpi di lancia (2 Sam 18,14). A proposito poi di chi
rifiuta ossequio ai sacerdoti è scritto: "Chi superbamente rifiuterà
ossequio al precetto del sacerdote in funzione, o alla sentenza del giudice,
morrà" (Dt 17,12).
8 Doveri dei genitori verso i figli
326 La Legge divina, che ha
sancito l'ossequio filiale e l'obbedienza verso i genitori, ha pure stabilito i
doveri e le mansioni proprie dei genitori. A essi impone di inculcare nei
figlioli le discipline sante e i costumi integri, di suggerire loro i sani
precetti del vivere, affinché, religiosamente istruiti, onorino piamente e
indefettibilmente Dio, come leggiamo essere stato fatto dai genitori di Susanna
(Dn 13,2s).
Perciò il sacerdote ammonirà
i genitori di mostrarsi ai figli quali maestri di virtù, di equità, di
continenza, di modestia e di pietà. Dovranno in modo speciale evitare tre
scogli su cui è più facile incappare. Anzitutto si asterranno dal parlare e
comandare ai figlioli con asprezza; lo dice l'Apostolo nella lettera ai
Colossesi: "O padri, non vogliate provocare a sdegno i vostri figli,
perché non si avviliscano" (Col 3,21). C'è pericolo che, temendo di tutto,
acquistino una natura fragile e pusillanime. Raccomanderà perciò che, evitando
l'eccessiva severità, preferiscano correggere anziché punire i propri figlioli.
D'altra parte, qualora sia stata commessa una colpa e siano quindi necessari la
riprensione e il castigo, non siano stimolati a transigere da eccessiva
indulgenza. Spesso infatti accade che i figli siano sciupati dalla esagerata
mitezza dei genitori. Da così malsana indulgenza allontani l'esempio di Eli,
sommo sacerdote, il quale, essendo stato troppo debole con la propria
figliolanza, incontrò l'estremo castigo (1 Sam 4,18).
Infine badino bene i genitori
a non vagheggiare, cosa orribile, intenti volgari nell'educazione e istruzione
dei figli. Ci sono molti che pensano a una cosa sola: lasciare ai figli
sostanze abbondanti, un pingue e vistoso patrimonio ed esortano i loro rampolli
non già alla religione, alla pietà, alla regola delle sante virtù, bensì
all'avarizia e all'aumento dei beni di famiglia. Costoro non si preoccupano
della buona fama e della salvezza dei figli, ma solo badano a che siano sempre
più ricchi. Si può immaginare un programma più turpe? Finiscono così con il
lasciare ai figli non solo un'eredità cospicua, ma anche un pesante fardello di
colpe e di nefandezze, che li fa essere non guide al cielo, ma pessimi
iniziatori all'eterno supplizio dell'inferno.
II parroco con sapienti
consigli istruisca i genitori, stimolandoli a imitare il virtuoso esempio di
Tobia (Tb 4). Se avranno educato i figli al culto divino e alla santità, ne
riceveranno in cambio frutti copiosi di amore, di rispetto e di ossequio.
Quinto comandamento
9 NON AMMAZZARE
Spiegazione del quinto comandamento
327 L'insigne felicità
promessa ai pacifici, che saranno chiamati "figli di Dio" (Mt 5,9),
deve stimolare in sommo grado i pastori a spiegare e inculcare con assidua
diligenza ai fedeli l'osservanza di questo comandamento; non v'è modo migliore
di fondere le volontà umane nel rispetto universale e generoso di questo
precetto, rettamente spiegato. Se ciò si verificherà, gli uomini, strettamente
affratellati in un saldo consenso spirituale, conserveranno bene la pace e la
concordia.
Quanto sia necessario
spiegare questo precetto risulta dalla circostanza che, dopo il diluvio
universale, fu questa la prima proibizione emanata da Dio agli uomini:
"Del vostro sangue farò vendetta sopra qualsiasi animale e farò vendetta
dell'uccisione di un uomo sopra l'uomo" (Gn 9,5). Nel Vangelo, là dove il
Signore spiega le antiche leggi, questa è al primo posto come si legge in san
Matteo: "E comandato: non ammazzare" con tutto quel che segue nel
passo indicato (5,21 ss).
I fedeli dal canto loro
devono prestare attento e volenteroso ascolto a questo comando. La sua forza
vale a tutelare la vita di ciascuno. Con le parole, infatti, "Non
ammazzare" è perentoriamente vietato l'omicidio. Perciò ciascuno deve
accoglierlo con sì viva prontezza come se, con minaccia dell'ira di Dio e di
altre gravissime pene stabilite, fosse tassativamente vietata la lesione di
questo o quell'individuo. Come è confortante ascoltare un tale precetto, cosi
deve recare soddisfazione l'eliminazione del delitto che esso proibisce.
10 Eccezioni al quinto comandamento
328 Spiegando il contenuto di
questo precetto il Signore mostra che esso comprende due elementi: il primo,
negativo, cioè il divieto dell'uccisione; il secondo, positivo, cioè
l'ingiunzione di estendere la nostra concorde e caritatevole amicizia anche ai
nemici, per avere pace con tutti, sia pure affrontando con pazienza ogni
contrarietà.
Enunciata la Legge che vieta
di uccidere, il parroco dovrà subito indicare le uccisioni che non sono
proibite. Non è infatti vietato uccidere animali. Se Dio ha concesso agli
uomini di nutrirsene, deve essere lecito ucciderli. In proposito dice
sant'Agostino: "Non dobbiamo applicare la formula non ammazzare ai
vegetali, cui manca ogni facoltà sensibile, né agli animali irragionevoli, che
non sono collegati a noi da alcuna virtù razionale" (De civit. Dei, 1, 20).
Altra categoria di uccisioni
permessa è quella che rientra nei poteri di quei magistrati che hanno facoltà
di condannare a morte. Tale facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve
a reprimere i facinorosi e a difendere gli innocenti. Applicandola, i
magistrati non solamente non sono rei di omicidio, ma, al contrario,
obbediscono in una maniera superiore alla Legge divina, che vieta di uccidere,
poiché il fine della Legge è la tutela della vita e della tranquillità umana.
Ora. le decisioni dei magistrati, legittimi vendicatori dei misfatti, mirano
appunto a garantire la tranquillità della vita civile, mediante la repressione
punitiva dell'audacia e della delinquenza. Ha detto David: "Sulle prime
ore del giorno soppressi tutti i peccatori del territorio, onde eliminare dalla
città del Signore tutti coloro che compiono iniquità" (Sal 100,8).
Per le medesime ragioni non
peccano neppure coloro che, durante una guerra giusta, non mossi da cupidigia o
da crudeltà, ma solamente dall'amore del pubblico bene, tolgono la vita ai
nemici.
Vi sono anzi delle uccisioni
compiute per espresso comando di Dio. 1 figli di Levi non peccarono quando in
un giorno solo uccisero migliaia di uomini; dopo di ciò, Mosè rivolse loro le
parole: "Oggi avete consacrato le mani vostre a Dio" (Es 32,29).
Infine non è reo di
trasgressione a questo precetto chi, non di spontanea volontà e di proposito,
ma per disgrazia uccide un altro. E scritto nel Deuteronomio: "Chi per
caso abbia colpito il suo prossimo e si riesca a provare che ne ieri, ne ieri
l'altro nutriva odio per il colpito, ma che, recandosi insieme a far legna nel
bosco, nel tagliare i tronchi, la scure gli sfuggì di mano e il ferro spiccato
dal manico colpì l'amico e l'uccise (19), tale uccisione, non compiuta per atto
di volontà e studiatamente, non può assolutamente imputarsi a colpa". Lo
conferma la sentenza di sant'Agostino: "Nessuno pensi che possa esserci
addebitato ciò che facciamo per il bene o per il lecito, anche se importi,
senza il nostro volere, qualcosa di male" (Epist., 47, 5).
Ma anche in tali casi
tuttavia può talora esserci colpa: se cioè l'uccisore involontario sia intento
a cosa ingiusta, o se l'uccisione si verifichi per negligenza e imprudenza, non
essendo state valutate tutte le circostanze. Un esempio del primo caso: se uno
percuotendo con un pugno o un calcio una donna incinta, provochi l'aborto, pur
essendo ciò fuori dell'intenzione del percussore, non si può dire immune da
colpa, non essendo in alcun modo lecito percuotere una donna incinta.
Che la legge poi non colpisca
chi uccide un altro in difesa della propria vita, avendo però adoperato ogni
cautela, è evidente.
11 Azioni proibite dal quinto comandamento
329 Queste sono dunque le
categorie di uccisioni non comprese nella Legge. Fatta eccezione per esse,
tutte le altre sono proibite, qualunque sia la qualità dell'uccisore,
dell'ucciso e la modalità dell'atto omicida.
Per quanto riguarda la
persona dell'uccisore, nessuno sfugge al precetto: non il ricco, non il
potente, non il padrone, non i genitori. A tutti è vietato di uccidere,
ripudiata ogni considerazione personale.
Per quanto riguarda gli
uccisi, anche qui la Legge ha un ambito universale, ne c'è individuo per quanto
umile e misero, che non sia tutelato dalla validità di questa Legge.
Né ad alcuno è lecito
togliersi quella vita su cui nessuno ha così pieno potere da essere in diritto
di sopprimerla quando voglia. Il tenore stesso del precetto lo indica, poiché
non è detto: "Non ammazzare altri"; ma puramente e semplicemente:
"Non ammazzare".
Infine avendo di mira i vari
modi con cui può esser data la morte, neppure a questo proposito sussistono
eccezioni. È vietato infatti non solamente uccidere chicchessia con le proprie
mani, con il ferro, con pietra, con bastone, con laccio o con il veleno, ma
anche il procurare la morte con il consiglio, con l'aiuto, con il concorso e
qualsiasi altro mezzo. Sono evidenti l'ottusità e la fatuità degli Ebrei che
ritenevano di rispettare la Legge astenendosi semplicemente dall'uccidere con
le proprie mani. Il cristiano che dalla parola di Gesù Cristo ha appreso come
tale Legge abbia un valore spirituale e impone non solo di conservare pure le
mani, ma casto e incontaminato lo spirito, non ritiene davvero sufficiente quel
che gli Ebrei credevano così di adempiere a sufficienza.
Il Vangelo insegna che non è
lecito neppure farsi vincere dall'ira. Il Signore infatti ha detto: "Ma io
vi dico: chiunque si adira contro il fratello, sarà condannato in giudizio.
E chi avrà detto al fratello:
"Raca", sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto:
"Stolto", verrà condannato al fuoco della Geenna" (Mt 5,22).
Da queste parole risulta
nettamente che non è esente da colpa chi si adira contro il proprio fratello,
anche se chiuda l'ira nel proprio animo. Chi poi all'ira concede un'espressione
esterna, pecca gravemente; e più gravemente pecca chi osi trattare duramente e
svillaneggiare il proprio simile. Naturalmente tutto ciò è vero nel caso che
non sussista alcuna plausibile ragione per l'ira; poiché c'è una legittima
ragione di sdegno, ammessa da Dio e dalle leggi. E si verifica quando ci leviamo
contro le colpe di coloro che sono sottoposti al nostro comando e alla nostra
potestà. Lo sdegno del cristiano deve però prorompere non dai sensi, ma dallo
Spirito Santo, dovendo noi essere i suoi templi e dimora di Gesù Cristo (1 Cor
6,19).
Molte parole del Signore si
riferiscono alla perfezione di questa Legge. Per esempio: "Non opporre
resistenza al male"; "Se ti avran percosso sulla guancia destra,
presenta anche l'altra": "A chi vuoi bisticciarsi con te per aver la
tua tunica, da pure il mantello"; "Continua ad andare per altre due
miglia con chi ti avrà bistrattato già per un miglio intero" (Mt 5,39).
12 L'omicidio
330 Da quanto siamo venuti
dicendo è lecito arguire quanto siano proclivi gli uomini alle colpe vietate da
questo comandamento e quanto numerosi siano coloro che, se non con le mani,
almeno con l'animo cadono in questo peccato. E poiché le Sacre Scritture
indicano nettamente i rimedi salutari contro questo pericoloso morbo, è dovere
del parroco farne diligente esposizione ai fedeli, insistendo specialmente
sulla gravità mostruosa dell'omicidio, quale traspare da copiosissime ed
esplicite testimonianze della Sacra Scrittura (Gn 4,10; 9,5; Lv 24,17).
L'abominazione di Dio contro
l'omicidio giunge nella Bibbia fino a punire le bestie ree di omicidio,
comandando che sia ucciso l'animale che abbia leso un essere umano (Es 21,28).
Anzi, la principale ragione per cui Dio volle che ogni uomo avesse orrore del
sangue, è appunto qui: affinché conservasse integralmente mondi dal riprovevole
omicidio l'animo e le mani. Sono in realtà omicidi del genere umano, e quindi
nefasti avversari della natura, tutti coloro che, per quanto è loro dato,
sovvertono l'opera universale di Dio sopprimendo l'uomo per il quale Dio
dichiara di avere creato il mondo visibile (Gn 1,26). E poiché è scritto nella
Genesi ch'è vietato di commettere omicidi, avendo Dio creato l'uomo a sua
immagine e somiglianza, fa veramente una sfacciata ingiuria a Dio, quasi
volesse menare con violenza le mani contro di lui, chiunque toglie di mezzo una
sua immagine (Gn 9,6). Meditando ciò con animo ispirato, David pronunciò gravi
lamenti contro i sanguinari, quando disse: "Rapidi sono i loro passi verso
lo spargimento di sangue" (Sal 13,3). Non disse egli puramente
"uccidono", ma "spargono sangue", quasi a far risaltare la
detestabilità del delitto e la smisurata crudeltà dell'omicida. E per
illustrare come siano violentemente spinti dall'istinto diabolico al delitto,
premette: "Corrono rapidi i loro passi".
13 Azioni inculcate dal quinto comandamento
331 In sostanza quanto nostro
Signore Gesù Cristo prescrive che sia osservato con questo comandamento mira a
farci conservare rapporti pacifici con tutti. Dice infatti, interpretandolo:
"Se tu stai per fare l'offerta all'altare e là ti viene alla memoria che
un tuo fratello ha qualche cosa contro di te, abbandona la tua offerta davanti
all'altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello e poi ritorna a fare la
tua offerta" (Mt 5,23), con quel che segue. Il parroco spiegherà tutto ciò
in modo che s'intenda come tutti, senza eccezione, devono essere inclusi nel
medesimo sentimento di carità. E a tale sentimento, nella spiegazione del
precetto, stimolerà quanto più sarà possibile i fedeli, perché in esso riluce
sopra tutto la virtù dell'amore del prossimo.
Infatti, vietandosi
apertamente con questo comandamento l'odio, poiché chi odia il proprio fratello
è omicida (1 Gv 3,15), ne segue che c'è qui implicito il precetto dell'amore e
della carità. E se nel comandamento che studiarne è imposta la legge della
carità e dell'amore, nel medesimo tempo sono formulati i precetti di tutti quei
servizi e atti che sogliono scaturire dalla carità. "La carità è
paziente" dice san Paolo (1 Cor 13,4); anche la pazienza dunque ci è
comandata e con essa, secondo la parola del Salvatore, noi saremo in possesso
delle anime nostre (Lc 21,19).
Segue, come prossima compagna
della carità, la beneficenza, perché "la carità è benigna". La virtù
della benignità o della beneficenza possiede una sfera vasta, esplicandosi
soprattutto nel provvedere ai poveri il necessario, agli affamati il cibo, agli
assetati la bevanda, ai nudi il vestito. Essa vuole che la nostra liberalità
vada con maggiore larghezza a chi più abbisogna del nostro soccorso. Le opere
della beneficenza e della bontà, di per sé già cosi meritevoli, assumono un
valore insigne se dirette ai nostri nemici. Disse infatti il Salvatore:
"Amate i vostri nemici; fate del bene a chi vi odia" (Mt 5,44).
Analogamente ammonisce l'Apostolo: "Se il tuo avversario soffre la fame,
nutrilo; se ha sete dagli da bere; così facendo, accumulerai sul suo capo
carboni ardenti. Non ti far vincere dal male, ma vinci il male con il
bene" (Rm 12,20). Infine, volendo esporre tutta la legge della carità, che
è benigna, riconosceremo che il precetto ordina di uniformare sempre le nostre
azioni a mitezza, a dolcezza e a tutte le altre virtù affini.
Però il compito più alto e
più riboccante di carità, nel quale dobbiamo con maggior cura esercitarci, è
quello di perdonare e di dimenticare con cuore sereno le ingiurie ricevute.
Come abbiamo detto, la Sacra Scrittura ammonisce insistentemente di farlo senza
riluttanza, non solo dichiarando beati coloro che ciò praticano (Mt 5,4.9.44),
ma proclamando perdonate da Dio le loro colpe (Sir 28,2; Mt 6,14; Mc 11,25; Lc
6,37; Ef 4,32; Col 3,13) e imperdonabili quelle di coloro che vi si rifiutano o
sono negligenti nel farlo (Sir 28,1; Mt 6,15; 18,34; Mc 11,26).
14 I motivi di perdonare le offese
332 Poiché la brama della
vendetta è quasi innata nello spirito degli uomini, il parroco usi tutta la
diligenza non solo nell'insegnare, ma proprio nell'inculcare e persuadere i
fedeli che dimenticare le offese e perdonarle è stretto dovere del cristiano.
Ed essendo copiose le testimonianze degli scrittori sacri in proposito, ne
faccia tesoro per spezzare la pertinacia di coloro che hanno l'animo indurito
nella voluttà della vendetta.
Abbia perciò pronte le
ponderate e opportunissime argomentazioni dei Padri, fra cui tre meritano
speciale menzione.
Anzitutto, chi si ritiene
ingiuriato deve convincersi che la causa principale del fatto non va ricercata
in colui contro il quale agogna vendetta. L'ammirabile Giobbe, gravemente
danneggiato da Sabei, da Caldei e dal demonio, essendo uomo retto e pio, non
tiene conto di loro, ma esce in queste pie e sante parole: "II Signore
donò, il Signore tolse" (Gb 1,21). Sull'esempio e sulla parola di
quell'uomo pazientissimo i cristiani vogliano persuadersi che in verità quanto
soffriamo in questa vita, deriva da Dio, padre e autore di ogni giustizia come
di ogni misericordia. La sua immensa misericordia non ci punisce come
avversari, ma ci corregge e castiga come figli.
A ben considerare le cose,
gli uomini sono qui semplicemente ministri ed emissari di Dio; pur potendo un
uomo odiare malvagiamente un altro e desiderargli ogni male, non può in realtà
nuocergli se non lo permetta Dio. Persuasi di ciò, Giuseppe sostenne
serenamente gli empi propositi dei fratelli (Gn 45,5) e David le ingiurie di
Simei (2 Sam 16,10). In queste considerazioni rientra l'argomento svolto con
grande dottrina dal Crisostomo, secondo il quale ciascuno è causa del proprio
male. Infatti coloro che si ritengono maltrattati, se ben considerino la loro
situazione, si accorgeranno di non aver subito ingiuria o danno dagli altri, potendo
le lesioni e le offese provenire apparentemente dall'esterno, ma siamo in
realtà noi stessi la causa del nostro male, contaminando l'animo con le nefaste
passioni dell'odio, della cupidigia, dell'invidia.
In secondo luogo, due insigni
vantaggi ricadono su coloro che, spinti dal santo amore di Dio, perdonano di
buon grado le offese ricevute. Il primo è questo: Dio ha promesso che chi
rimette agli altri i torti, otterrà il perdono delle proprie colpe (Mt 6,14);
donde appare quanto gli sia gradito simile atto di virtù. L'altro sta nella
nobiltà e nella perfezione conseguite da chi perdona. Dimenticando le ingiurie,
diveniamo in certo modo simili a Dio, che fa sorgere il sole egualmente sui
buoni e sui cattivi e distribuisce la pioggia su giusti e sugli ingiusti (Mt
5,45).
Infine, devono essere
spiegati gli inconvenienti a cui andiamo incontro, non perdonando le ingiurie a
noi recate. Perciò il parroco farà considerare a coloro che non vogliono
perdonare ai propri nemici, come l'odio non solo sia un grave peccato, ma
divenga più grave con il persistervi. Chi è padroneggiato da questo sentimento,
assetato del sangue dell'avversario e pieno di speranza nella vendetta,
trascorre notte e giorno in un tale permanente sconvolgimento malefico dello
spirito che non sembra mai sgombro dal fantasma della strage o di qualche
azione nefasta. Costui giammai, o solo da straordinari motivi, potrà essere
indotto a perdonare del tutto o a dimenticare in parte le ingiurie. A buon
diritto viene paragonato alla ferita in cui il dardo è rimasto infitto.
Sono molteplici in verità i
peccati stretti insieme da comune vincolo nella colpa unica dell'odio. San
Giovanni disse chiaramente in proposito: "Chi odia il proprio fratello
giace nelle tenebre e procede nell'oscurità, ignaro della sua meta; le tenebre
tolsero il lume dai suoi occhi" (1 Gv 2,11), cosicché è destinato a cadere
di frequente. Come, per esempio, potrebbe approvare i detti o i fatti di colui
che odia? Di qui i fallaci giudizi temerari, le ire, le invidie, le maldicenze e
simili manifestazioni di malevolenza, che vanno a colpire anche chi è legato da
parentela o da amicizia alla persona dell'odiato.
Da una colpa ne nascono così
diecine e non a torto si dice che questo è il peccato del demonio, che fu
omicida fin dall'inizio. Il Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, disse
appunto che i Farisei erano generati dal diavolo proprio perché desideravano di
metterlo a morte (Gv 8,44).
Quanto abbiamo detto fin qui
riguarda le ragioni che possono addursi per inculcare la determinazione di
questo peccato. Ma nei monumenti della letteratura sacra è facile anche
rinvenire i rimedi più opportuni a tanto flagello. Il primo e il più efficace è
l'esempio del nostro Salvatore, che noi dobbiamo proporci di imitare. Sebbene
la più tenue ombra di mancanza non potesse offuscare il suo immacolato candore,
quantunque percosso con verghe, coronato di spine e confitto sulla croce,
pronunciò queste parole, ricche di misericordia: "Padre, perdonali, perché
non sanno quello che fanno" (Lc 23,34). L'effusione di questo sangue,
secondo la testimonianza dell'Apostolo, parla ben più eloquentemente che quello
di Abele (Eb 12,24).
Un secondo rimedio viene
proposto dal Siracide e consiste nell'aver presenti la morte e il giorno del
giudizio. Esso dice: "Ricorda i tuoi ultimi eventi e non peccherai in
eterno" (Sir 7,40). In altri termini: pensa molto spesso che tra poco ti
coglierà la morte e poiché in quell'ora suprema sarà per te d'interesse massimo
impetrare l'infinita misericordia di Dio, è necessario che essa ti sia dinanzi
ora e sempre. Cosi quella bramosia di vendetta che cova in te, si estinguerà
prontamente, non esistendo mezzo più valido a ottenere la misericordia divina
del perdono delle ingiurie e dell'amore verace per coloro che, con la parola o con
le azioni, offesero te o i tuoi.
Sesto comandamento
15 NON COMMETTERE ATTI IMPURI
Spiegazione del comandamento
333 Se il vincolo tra marito
e moglie è il più stretto che esista e nulla può essere loro più dolce che il
sentirsi vicendevolmente stretti da un affetto speciale, nulla, al contrario,
può capitare a uno di essi di più amaro che sentire il legittimo amore del
coniuge rivolgersi altrove. Ragionevolmente, perciò, alla Legge che garantisce
la vita umana dall'omicidio segue quella che vieta la fornicazione o
l'adulterio, affinché nessuno tenti di contaminare o spezzare quella santa e
veneranda unione matrimoniale, dalla quale suole scaturire così ardente fuoco
di carità.
Toccando questo argomento il
parroco usi la più prudente cautela e con sagge parole alluda a cose che
esigono più la moderazione che l'abbondanza dell'eloquio. E da temersi infatti
che, diffondendosi troppo a spiegare i modi con cui gli uomini possono
trasgredire questo comandamento, finisca con il dire frasi capaci di eccitare
la sensualità, anziché reprimerla.
A ogni modo il precetto
racchiude molti elementi che non possono essere trascurati e il parroco li
spiegherà a suo tempo. Esso ha due parti: una che vieta apertamente
l'adulterio; l'altra, più generale, che impone la castità dell'anima e del
corpo.
16 L'adulterio
334 Per iniziare
l'insegnamento da quello che è vietato, diremo subito che adulterio è
violazione del legittimo letto, proprio o altrui. Se un marito ha rapporti
carnali con donna non coniugata, viola il proprio vincolo matrimoniale; se un
individuo non coniugato ha rapporti con donna maritata, è contaminato dal
delitto di adulterio il vincolo altrui.
Sant'Ambrogio e sant'Agostino
confermano che con tale divieto dell'adulterio è proibito ogni atto disonesto e
impudico. Ciò risulta direttamente dalla Scrittura del Vecchio come del Nuovo
Testamento. Nei libri mosaici vediamo puniti altri generi di libidine carnale,
oltre l'adulterio. Leggiamo nella Genesi la sentenza pronunciata da Giuda
contro la nuora (38,24); nel Deuteronomio è formulato questo precetto:
"Tra le figlie d'Israele nessuna sia cortigiana" (23,17). Tobia così
esorta il figliolo: "Guardati, figlio mio, da ogni atto impudico" (Tb
4,13). E il Siracide dice: "Vergognatevi di guardare la donna
peccatrice" (41,25). Nel Vangelo Gesù Cristo dichiara che dal cuore
emanano gli adulteri e le azioni disoneste che macchiano l'uomo (Mt 15,19).
L'Apostolo Paolo bolla di frequente, con parole roventi, questo vizio:
"Dio vuole la vostra santificazione; vuole che vi asteniate dalle
impurità" (1 Ts 4,3). E altrove: "Evitate ogni fornicazione" (1
Cor 6,18); "Non vi mescolate agli impudichi" (1 Cor 5,9); "In
mezzo a voi, non siano neppur nominate l'incontinenza, l'impurità di ogni
genere e l'avarizia" (Ef 5,3); "Disonesti e adulteri, effeminati e
pederasti non possederanno il regno di Dio" (1 Cor 6,9).
L'adulterio è stato
espressamente menzionato nel divieto, perché alla sconcezza che riveste in
comune con tutte le altre forme di incontinenza, accoppia un peccato di
ingiustizia verso il prossimo e la società civile. Inoltre è indubitato che chi
non si tiene lontano dalle forme ordinarie dell'impudicizia, facilmente
incapperà nel crimine di adulterio. Così è agevole comprendere come nel divieto
dell'adulterio sia inclusa la proibizione di ogni genere di impurità
contaminante il corpo. Del resto che questo comandamento investa ogni intima
libidine dell'animo appare dalla natura stessa della Legge, che è spirituale, e
dalle esplicite parole di nostro Signore: "Udiste che fu detto agli antichi:
"Non fare adulterio". Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per
fine disonesto, in cuor suo ha già commesso adulterio su lei" (Mt 5,27).
A ciò che riteniamo debba
essere insegnato pubblicamente ai fedeli si aggiungano i decreti del Concilio
di Trento contro gli adulteri e coloro che mantengono prostitute e concubine
(Sess. 24, e. 8), tralasciando di parlare dei vari e multiformi generi di
libidine sessuale, intorno ai quali il parroco ammonirà i singoli fedeli,
qualora le circostanze di tempo e di persona lo richiedano.
17 Considerazioni per conservare la castità
335 Siano pure spiegate le
prescrizioni che hanno forza di precetto. I fedeli devono essere ammaestrati ed
esortati a rispettare con ogni cura la pudicizia e la continenza, a conservarsi
mondi da ogni contaminazione della carne e dello spirito, attuando la
santificazione nel timore di Dio (2 Cor 7,1). Si dica loro che, sebbene la
virtù della castità debba maggiormente brillare in quella categoria di persone
che coltiva il magnifico e pressoché divino proposito della verginità, pure
essa conviene anche a coloro che menano vita celibataria o, congiunti in
matrimonio, si mantengono mondi dalla libidine vietata.
Le molte sentenze dei Padri,
con cui siamo ammaestrati a dominare le passioni sensuali e a frenare l'istinto
passionale, saranno dal parroco accuratamente esposte al popolo, con una
trattazione diligente e costante. Parte di esse riguarda il pensiero, parte
l'azione.
Il rimedio che fa leva
sull'intelligenza tende a farci comprendere quanto grandi siano la turpitudine
e il pericolo di questo peccato. In base a simile apprezzamento, più viva
arderà in noi l'avversione per esso. Si tratta di un peccato che è un vero
flagello e per sua causa sugli uomini incombe l'ultima rovina: l'espulsione dal
regno di Dio e lo sterminio.
Questo può sembrare comune a
ogni genere di peccato, ma qui abbiamo di caratteristico che i fornicatori,
secondo la frase dell'Apostolo, peccano contro il proprio corpo: "Fuggite
l'impudicizia; qualunque peccato l'uomo commetta, si svolge fuori del corpo, ma
il fornicatore pecca sul proprio corpo" (1 Cor 6,18), vale a dire lo
tratta ignominiosamente, violandone la santità. A quelli di Tessalonica lo
stesso san Paolo diceva: "Dio vuole la vostra santificazione; che vi
asteniate da atti impuri; che ciascuno di voi sappia mantenere il vaso del suo
corpo in santità e dignità, non nella irrequietezza del desiderio, come i
pagani che ignorano Dio" (1 Ts 4,5).
E cosa ben più ripugnante, se
è un cristiano colui che si unisce turpemente a una meretrice, perché rende
membra di meretrice le membra di Gesù Cristo, come appunto dice san Paolo:
"Non sapete che i vostri corpi sono membra di Gesù Cristo? Sottraendo le
membra a Gesù Cristo, le farò membra della meretrice? Non sia mai. Ignorate forse
che aderendo alla meretrice, ne risulta un solo corpo?" (2 Cor 6,15).
Inoltre il cristiano, sempre
secondo san Paolo, è tempio dello Spirito Santo (1 Cor 6,19); violarlo
significa espellerne lo Spirito Santo stesso.
Tuttavia particolare
malvagità è racchiusa nel delitto di adulterio. Infatti, come vuole l'Apostolo,
i coniugi sono così vincolati da una scambievole sudditanza che nessuno dei due
possiede illimitata potestà sul proprio corpo, ma sono così schiavi l'uno
dell'altro che il marito deve uniformarsi alla volontà della moglie e la moglie
a quella del marito (1 Cor 7,4). Ne consegue che chi dei due separa il proprio
corpo, soggetto all'altrui diritto, da colui al quale è vincolato, si rende reo
di specialissima iniquità.
Poiché l'orrore dell'infamia
è per gli uomini un valido stimolo a fare quanto è prescritto e a fuggire
quanto è vietato, il parroco insisterà nel mostrare come l'adulterio imprima
sugli individui un profondo segno di infamia. E scritto nella Sacra Scrittura:
"L'adultero, a causa della sua fragilità di cuore, perderà l'anima sua;
condensa su di sé la vergogna e l'abominio; la sua turpitudine non sarà mai
cancellata" (Prv 6,32).
La gravità di questa colpa
può essere facilmente ricavata dalla severità della punizione stabilita. Nella
legge fissata da Dio nel Vecchio Testamento gli adulteri venivano lapidati (Lv
20,10; Dt 22,22). Anzi talora per la concupiscenza sfrenata di uno solo, non il
reo semplicemente, ma l'intera città fu condannata alla distruzione; tale fu la
sorte dei Sichemiti (Gn 34,25). Del resto numerosi appaiono nella Sacra
Scrittura gli esempi dell'ira divina, che il parroco potrà evocare, per
allontanare gli uomini dalla riprovevole libidine: la sorte di Sodoma e delle
città confinanti (Gn 19,24); il supplizio degli Israeliti che avevano fornicato
nel deserto con le figlie di Moab (Nm 25); la distruzione dei Beniamiti (Gdc
20).
Se v'è qualcuno che sfugge
alla morte, non si sottrae però a dolori intollerabili, a tormenti punitivi,
che piombano inesorabili. Accecato com'è nella mente (ed è già questa pena
gravissima), non tiene più conto di Dio, della fama, della dignità, dei figli e
della stessa vita. Resta così depravato e inutilizzato, da non poterglisi
affidare nulla di importante, o assegnarlo come idoneo ad alcun ufficio.
Possiamo scorgere esempi di questo in David come in Salomone. Il primo, resosi
reo di adulterio, subitamente cambiò natura e da mitissimo divenne feroce, sì
da mandare alla morte l'ottimo Uria (2 Sam 11); l'altro, perduto nei piaceri
delle donne, si allontanò talmente dalla vera religione di Dio da seguire
divinità straniere (1 Re 11). Secondo la parola di Osea, questo peccato travia
il cuore dell'uomo (Os 4,11) e ne acceca la mente.
18 Rimedi per conservare la castità
336 Veniamo ai rimedi che
riguardano l’azione da svolgere. Il primo consiste nel fuggire con ogni cura
l'ozio. Impoltronendo nell'ozio, come dice Ezechiele (Ez 16,49), gli abitanti
di Sodoma precipitarono nel più vergognoso crimine di concupiscenza.
Sono poi da evitarsi con
grande vigilanza gli eccessi nel mangiare e nel bere. "Li satollai"
dice il Profeta "ed essi fornicarono" (Ger 5,7). Il ventre ripieno
provoca la libidine, come accennò il Signore con le parole: "Badate che i
vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell'ebrietà" (Lc
21,34) e l'Apostolo: "Non vogliate ubriacarvi, poiché il vino nasconde la
lussuria" (Ef 5,18).
Gli occhi sono i veicoli più
pericolosi, attraverso i quali l'animo suole accendersi alla libidine. Per
questo il Signore ha detto: "Se il tuo occhio destro ti scandalizza,
cavalo e gettalo via da te " (Mt 5,29). Molte sono in proposito le
sentenze dei Profeti. Giobbe dice per esempio: "Strinsi un patto con gli
occhi miei, di neppure pensare a una vergine" (Gb 31,1). Sono copiosi,
anzi innumerevoli gli esempi di azioni perverse, provocate dalla vista. Peccò
così David (2 Sam 11,2); peccò così il re di Sichem (Gn 34,2); così finirono
con il farsi calunniatori di Susanna i vecchi, di cui parla Daniele (13,8).
Spesso incentivo non
indifferente alla libidine offre la moda ricercata, che solletica l'occhio. Per
questo ammonisce il Siracide: "Volta la faccia dalla donna elegante"
(9,8).
E poiché le donne sogliono
badare troppo al loro abbigliamento, non sarà male che il parroco attenda di
frequente a premunirle in proposito, memore delle parole gravissime che
l'Apostolo Pietro ha dettato sull'argomento: "La pettinatura delle donne
non sia appariscente, i monili e l'abbigliamento non siano ricercati" (1
Pt 3,3) e di quelle di san Paolo: "Non badate ai capelli ben attorcigliati,
agli ori, alle pietre preziose, alle vesti sontuose" (1 Tm 2,9); molte
infatti che si erano adornate con oro e gioielli, smarrirono i veri ornamenti
dell'anima e del corpo.
Insieme all'incentivo
libidinoso che è dato dalla raffinata ricercatezza delle vesti, occorre
aggiungere quello che emana dai discorsi turpi e osceni. L'oscenità delle
parole, quasi fiaccola ardente, accende l'animo dei giovani: "Le perverse
conversazioni" dice l'Apostolo "corrompono i buoni costumi" (1
Cor 15,33). E poiché il medesimo effetto producono, in misura anche più
notevole, i balli e i canti sdolcinati, occorre tenersi lontani anche da
questi.
Fra questi incitamenti alla
voluttà vanno annoverati i libri osceni e trattanti dell'amore sessuale, che
devono evitarsi con non minore severità delle figure rappresentanti qualcosa di
turpe, la cui capacità di spingere al male e di infiammare i sensi giovanili è
straordinaria. Il parroco curi perciò soprattutto che siano osservate con il
massimo rispetto le costituzioni sapienti del Concilio Tridentino in proposito
(sess. 24).
Se con attenta cura e vigile
amore si eviterà quanto abbiamo ricordato, sarà soppressa ogni occasione alla
concupiscenza carnale; ma per la sua virulenza valgono in modo eminente la
Confessione e la Comunione frequente; le assidue e umili preci a Dio,
accompagnate da elemosine e da digiuni. La castità è, in fondo, un dono che Dio
non nega a chi rettamente lo cerca (1 Cor 7,7), poiché egli non consente che
siamo tentati sopra le nostre forze (1 Cor 10,13).
Dobbiamo infine mortificare
il corpo e i suoi appetiti malsani, non solamente con i digiuni, quelli
specialmente prescritti dalla santa Chiesa, ma anche con le vigilie, i pii
pellegrinaggi e con macerazioni di altro genere. In queste pratiche, infatti,
si manifesta la virtù della temperanza. Scriveva appunto san Paolo a quelli di
Corinto: "Chi si appresta a gareggiare nella palestra, segue un regime di
grande astinenza. Eppure essi ambiscono una semplice corona corruttibile,
mentre noi l'aspettiamo immortale". E poco appresso: "Castigo il mio
corpo e lo tengo in soggezione, affinché, dopo aver predicato agli altri, io
stesso non divenga alla fine un reprobo" (1 Cor 9,25). E altrove:
"Non vogliate pascere la carne nei suoi immoderati desideri" (Rm
13,14).
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