Parte terza -il decalogo- : I II e III comandamento



PARTE TERZA

I PRECETTI DEL DECALOGO

Importanza del Decalogo
298 Sant'Agostino (cf. 2 super Exod., q. 130) esalta apertamente il Decalogo come sintesi e riassunto di tutte le leggi: "Molte cose aveva detto il Signore, eppure due sole tavole di pietra furono date a Mosè, dette "tavole della testimonianza futura nell'arca"; perché tutto il resto che il Signore aveva comandato si intende compreso nei dieci comandamenti incisi nelle due tavole. Come del resto i medesimi dieci comandamenti dipendono a loro volta dai due dell'amore di Dio e del prossimo, in cui sta, in sintesi, tutta la Legge e tutto l'insegnamento dei Profeti".
Essendo qui il nucleo di tutta la Legge, occorre che i pastori attendano giorno e notte a meditarlo, non soltanto per uniformarvi la propria vita, ma anche per istruire nella disciplina del Signore il gregge loro affidato. Sta scritto: "Le labbra dei sacerdoti custodiranno la scienza e dalla loro parola sarà attinta la Legge, poiché il sacerdote è l'angelo del Signore degli eserciti" (Ml 2,7). Questa sentenza si applica in modo particolare ai pastori della nuova Alleanza che, essendo più vicini a Dio, devono ascendere di splendore in splendore, in virtù dello spirito del Signore (2 Cor 3,18). Avendoli Gesù Cristo insigniti del nome di luminari (Mt 5,14) è loro stretto compito fornire luce a coloro che giacciono nelle tenebre, costituirsi istruttori degli ignoranti, educatori dei fanciulli (Rm 2,19). Di più: essi, che sono spirituali, dovranno soccorrere chi sia irretito nel peccato (Gal 6,1).
Inoltre essi sono giudici nella confessione ed emanano sentenze secondo la qualità e la gravità dei peccati. Perciò, se non vogliono essere imputati di incapacità e non vogliono frodare gli altri, devono essere vigilantissimi nell'adempimento di tale compito ed esperti nell'interpretazione dei divini precetti, in base ai quali hanno da giudicare ogni azione e omissione. Secondo l'ammonimento dell'Apostolo, impartiscano la sana dottrina (2 Tm 4,3), immune cioè da ogni errore, e curino le malattie dell'anima, i peccati, sicché il loro popolo sia accetto a Dio e dedito alle opere buone (Tt 2,14).

1                    Esposizione del Decalogo

299 In queste esposizioni il pastore proponga a sé e agli altri argomenti capaci di indurre all'obbedienza della Legge.
Ora, tra le ragioni che possono spingere gli spiriti degli uomini al rispetto dei precetti della Legge, quella che riveste maggiore forza è questa: Dio ne è l'autore. Sebbene si dica consegnata dagli angeli (Gal 3,19), nessuno può revocare in dubbio il fatto che Dio stesso ne è l'autore. Ne danno ampia testimonianza non solamente le parole dello stesso legislatore, che commenteremo fra poco, ma passi quasi innumerevoli delle Scritture, che agevolmente occorreranno ai pastori. Del resto chi non sente una legge divina inserita nel cuore, in virtù della quale sa distinguere il bene dal male, l'onesto dal turpe, il giusto dall'ingiusto? E poiché la forza regolatrice di questa legge naturale non è diversa affatto da quella scritta, chi mai oserà negare che come Dio è l'autore della legge naturale, non lo sia anche della Legge scritta?
Si deve dunque insegnare che, consegnando la Legge a Mosè, Dio non conferì una luce nuova, bensì rinnovò il fulgore di una luce che i costumi perversi e una diuturna negligenza avevano miseramente oscurato. Questo perché il popolo cristiano non creda di essere esonerato dal vincolo di queste leggi, perché la Legge di Mosè è stata abrogata.
È certissimo infatti che dobbiamo obbedire a questi comandamenti, non perché sono stati imposti per mezzo di Mosè, ma perché scolpiti nell'anima di ciascuno e da nostro Signore spiegati e ratificati. A ogni modo gioverà moltissimo e rivestirà una singolare virtù dimostrativa la considerazione che Dio, sulla sapienza e giustizia del quale non è lecito sollevare dubbi e alla cui infinita e vigorosa potenza non possiamo sottrarci, emanò la Legge. Perciò, comandando per mezzo dei Profeti di rispettare la Legge, Dio dichiarava apertamente chi era e nell'esordio stesso del Decalogo leggiamo: "Io sono il Signore Dio tuo" (Es 20,2). Altrove: "Se io sono il Signore, dov'è il timore a me dovuto?" (Mal 1,6). Questo pensiero non solamente stimolerà le anime fedeli al rispetto dei precetti divini, ma anche ad azioni di grazie, per avere Dio manifestata la sua volontà, che è la via alla nostra salvezza.
Ripetute volte la Sacra Scrittura, esaltando questo straordinario beneficio, ammonisce il popolo a riconoscere la propria dignità e la benevolenza del Signore. Nel Deuteronomio è scritto: "Qui sta la vostra saggezza e la vostra prudenza di fronte ai popoli che, udendo questi comandamenti, esclameranno: "Ecco un popolo saggio e prudente, ecco una grande nazione" " (Dt 4,6). E nei Salmi: "Non si comportò così con nessun altro popolo e non rivelò ad altri i suoi voleri " (Sal 147,20).
Se il parroco additerà inoltre, sulla fede della Scrittura, il modo con il quale la Legge fu consegnata, i fedeli comprenderanno anche più agevolmente con quanta pia devozione debba essere rispettata una legge ricevuta da Dio. Tre giorni prima infatti, per comando di Dio, tutti dovettero lavare le proprie vesti, astenersi dai rapporti coniugali, per meglio predisporsi a ricevere la Legge; il terzo giorno tutti si radunarono, ma, pervenuti al monte da cui il Signore voleva impartire loro le Leggi per mezzo di Mosé, al solo Mosè fu concesso di salirvi. Allora Dio vi discese con grande maestà, fra tuoni, lampi, fuoco e dense nuvole e cominciò a parlare a Mosè, consegnandogli le Leggi (Es 19,10). Per una sola ragione la divina sapienza volle tutto ciò: mostrarci che la Legge del Signore va accolta con animo casto e umile e che, trasgredendo i comandamenti, noi andiamo incontro a severe pene della giustizia divina.
Il parroco mostrerà del resto come i precetti della Legge non implichino serie difficoltà e lo potrà fare adducendo anche questa sola ragione di sant'Agostino: "Chi, di grazia, vorrà definire impossibile per l'uomo amare, amare un Creatore benefico, un Padre amantissimo e, in linea subordinata, la carne propria nei propri fratelli? Orbene, chi ama ha adempito la Legge" (De mor. Eccl., 1, 25). Già l'Apostolo Giovanni assicura va apertamente che i comandamenti di Dio non sono onerosi (1 Gv 5,3); infatti, secondo la frase di san Bernardo, non si sarebbe potuto chiedere all'uomo nulla di più giusto, di più dignitoso e di più fruttifero (De dilig. Deo, 1, 1).
Per questo, ammirando l'infinita bontà di Dio, sant'Agostino esclama: "Che cosa è mai l'uomo, che tu vuoi esserne amato e minacci gravi pene a chi non voglia farlo, come se già non fosse pena immensa il non amarti? " (Confess., 1, 5). Se alcuno accampa a sua scusa l'infermità della natura, che gli impedisce di amare Dio, gli si mostri come lo stesso Dio, il quale chiede amore, instilla nei cuori la capacità di amare, per mezzo dello Spirito Santo, che dal Padre celeste viene concesso a chi lo invoca (Lc 11,13). È giusta quindi la formula di preghiera di sant'Agostino: "Concedi quel che comandi e comanda quello che vuoi" (Confess., 10,29). Poiché l'aiuto di Dio è a nostra disposizione, specialmente dopo la morte di nostro Signore Gesù Cristo, per merito della quale il sovrano di questo mondo è stato debellato, non c'è ragione di spaventarsi delle difficoltà dei precetti, poiché nulla è arduo a chi ama.
Del resto, per esserne persuasi, gioverà soprattutto riflettere sulla necessità di obbedire alla Legge, non essendo mancato ai nostri tempi chi, empiamente e con massimo proprio danno, ha osato sostenere che, facile o difficile, la Legge non è necessaria alla salvezza.   Il parroco confuterà con le testimonianze bibliche questa insana ed empia opinione, riferendosi specialmente all'Apostolo, della cui autorità si cerca di abusare per sostenerla. Che cosa dice in sostanza l'Apostolo? Che non il prepuzio o la circoncisione valgono qualcosa, ma solamente il rispetto dei precetti di Dio (1 Cor 7,19). E ripetendo altrove la medesima sentenza, aggiunge che in Gesù Cristo conta solamente la nuova creatura (Gal 6,15), intendendo chiaramente di chiamare così colui che si uniforma ai comandamenti divini. Chi infatti li conosce e li rispetta ama Dio, come il Signore stesso dichiara in san Giovanni: "Chi mi ama, osserverà le mie parole" (Gv 14,21). L'uomo può essere giustificato e da malvagio divenir buono anche prima di praticare nelle azioni esterne le singole prescrizioni della Legge; non può però, chi abbia già l'uso della ragione, trasformarsi da peccatore in giusto, se non sia disposto a osservare tutti i comandamenti di Dio.

2                    Frutti del Decalogo

300 Infine, per non dimenticare nulla di ciò che può indurre il popolo fedele all'osservanza della Legge, il parroco mostri quanto ricchi e dolci frutti essa produca. Lo potrà fare facilmente, ricordando quanto è scritto nel Salmo 18, consacrato a cantare le lodi della Legge divina, fra cui massima appare la capacità di dare risalto alla gloria e alla maestà di Dio, molto più di quanto non possano fare i corpi celesti con il loro splendore e il loro ordine. Questi infatti, strappando l'ammirazione alle genti più barbare, le portano a riconoscere la gloria, la saggezza e la potenza dell'Artefice primo d'ogni cosa. Così la Legge divina volge le anime a Dio (Sai 18,8); cosicché, scoprendo i suoi sentieri e la sua santa volontà attraverso la Legge, a lui dirigiamo i nostri passi. E poiché sono veramente sapienti solo coloro che temono Dio, Dio ha dato alla Legge la capacità di infondere sapienza ai piccoli. In verità coloro che osservano la Legge di Dio sono in possesso di autentici godimenti, della conoscenza dei misteri divini e di intense gioie e ricompense, in questa vita come nella futura.
Del resto la Legge deve essere rispettata non solo per il nostro vantaggio, ma anche per l'onore di Dio, il quale manifestò in essa la sua volontà al genere umano. Se tutte le creature vi sottostanno, non è ancora più giusto che la rispetti l'uomo? Né va dimenticata la singolarissima clemenza e bontà di Dio verso di noi. Avrebbe potuto costringerci, senza la prospettiva di alcun premio, a servire alla sua gloria. Eppure volle armonizzare questa con il nostro vantaggio, affinché la nostra utilità tornasse anche a onore di Dio, particolare, questo, importantissimo che il parroco ricorderà con le parole del Profeta: "Nel custodire i tuoi precetti, o Signore, generosa è la mercede" (Sal 18,12). Esso non abbraccia solamente benedizioni riguardanti la felicità terrena, come la prosperità delle città e la fecondità dei campi (Dt 28,3), ma anche una mercede copiosa in cielo (Mt 5,12), una misura buona, pigiata, scossa e traboccante (Lc 6,38), meritata con le opere buone, compiute mediante l'aiuto della divina misericordia.

3                    Istituzione del Decalogo

301 Sebbene questa Legge sia stata consegnata dal Signore sul monte agli Israeliti, tuttavia, essendo per virtù di natura impressa molto tempo prima nell'animo di tutti e Dio avendo sempre voluto che tutti gli uomini vi si uniformassero, sarà bene spiegare con cura le parole con le quali da Mosè, strumento e interprete, fu annunciata agli Ebrei, ricordando la storia israelitica che è tutta piena di misteri.
Esporrà dapprima come, fra tutte le nazioni della terra, Dio ne prescelse una, originata da Abramo, che egli volle pellegrino nella terra di Canaan. Di questa aveva promesso a lui il possesso; eppure tanto lui che la sua posterità andò vagando per più di quattrocento anni prima di potervi entrare ad abitarla. Mai però lasciò di proteggerli durante il lungo vagare. Passarono infatti da popolo a popolo e da un regno all'altro; mai però tollerò che si recasse loro ingiuria; al contrario rintuzzò i re nemici. Prima che essi scendessero in Egitto, mandò innanzi a loro un uomo che, con la sua preveggenza, doveva salvare dalla fame tanto essi che gli Egiziani.
In Egitto li circondò di una tale affettuosa tutela che, nonostante l'ostilità e la perenne minaccia del faraone, poterono moltiplicarsi in maniera mirabile e quando le afflizioni toccarono il culmino e cominciarono a essere trattati durissimamente come schiavi, Dio suscitò Mosè quale condottiero, capace di trarli a salvezza con mano energica.
Precisamente questa liberazione è ricordata dal Signore all'inizio della Legge, con le parole: "Io sono il Signore Dio tuo, che ti trassi fuori dalla terra d'Egitto, dalla casa della schiavitù".
Il parroco porrà bene in luce questa circostanza: Dio prescelse una sola fra tutte le nazioni perché fosse il suo popolo eletto, da cui farsi conoscere e venerare in modo speciale, non già perché superasse le altre in numero o virtù, come del resto il Signore stesso ricorda agli Ebrei, ma solo perché a Dio piacque di sostenere e arricchire una razza modesta e bisognosa, affinché la sua potenza e la sua bontà ne avessero maggior gloria e fama nell'universo. Appunto per quella loro condizione, si strinse con essi, li predilesse, non sdegnando neppure di esser detto loro Dio, affinché gli altri popoli fossero stimolati a emulazione e, constatando la felice condizione degli Israeliti, tutti gli uomini si convertissero al culto del vero Dio. Anche san Paolo afferma di aver voluto provocare a emulazione la propria gente, prospettando la beatitudine e la vera conoscenza di Dio, che egli impartiva ai pagani.
Mostrerà poi ai fedeli come Dio permise che gli antichi Ebrei peregrinassero a lungo e che i loro posteri fossero premuti e vessati in durissima schiavitù, perché noi constatassimo che solo chi è pellegrino sulla terra e osteggiato dal mondo può divenire amico di Dio (sicché, per essere accolti più agevolmente nella dimestichezza di Dio, occorre non aver nulla in comune con il mondo) e, inoltre, perché comprendessimo, una volta passati al vero culto di Dio, quanto più felici siano coloro che servono Dio, anziché il mondo. Ci ammonisce appunto Dio nella Scrittura: "Servano pure a essi, perché conoscano l'abisso che separa il mio servizio dal servizio dei re della terra" (2 Cr 12,8).
Ricorderà inoltre che Dio anticipò più di quattrocento anni le sue promesse, affinché il popolo si alimentasse costantemente di fede e di speranza, poiché Dio vuole che i suoi fedeli dipendano sempre da lui e collochino nella sua bontà tutta la loro fiducia, come diremo nella spiegazione del primo comandamento.
Infine indicherà il tempo e il luogo in cui il popolo di Israele ricevette questa Legge da Dio. Fu precisamente dopo l'uscita dall'Egitto e l'arrivo nel deserto, quando la memoria grata del recente beneficio e l'asprezza paurosa del luogo dove si trovava lo rendevano particolarmente atto ad accoglierla. Infatti gli uomini si sentono in modo particolare vincolati a coloro di cui hanno sperimentato i benefici e sogliono ricorrere all'aiuto di Dio quando si sentono abbandonati da ogni speranza umana. Da ciò è facile arguire che i fedeli saranno tanto più inclini ad accogliere la celeste dottrina, quanto più si terranno lontani dalle gioie del mondo e dalle soddisfazioni carnali, secondo le parole del Profeta: "A chi impartirà la scienza e a chi dischiuderà l'udito? A chi ha abbandonato il latte e si è staccato dalle mammelle" (Is 28,9).
Compia il parroco ogni sforzo perché il gregge fedele porti ognora scolpite in cuore le parole "Io sono il Signore Dio tuo". Per esse intenderà come il suo legislatore è lo stesso Creatore, da cui riceve l'esistenza e la conservazione. A buon diritto così potrà esclamare: "Egli è il Signore Dio nostro: noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce" (Sal 94,7). La ripetizione frequente e ardente di queste parole avrà la capacità di rendere i fedeli più pronti al rispetto della Legge, più disposti a star lontani dal peccato.
Per quanto riguarda le parole che seguono, "Io ti trassi dalla terra d'Egitto, dalla casa della schiavitù", sebbene sembrino attagliarsi solamente agli Ebrei affrancati dal giogo egiziano, in verità, se si badi al significato spirituale della salvezza universale, appariranno molto più applicabili ai cristiani. Essi sono strappati non già dalla schiavitù egiziana, bensì dal dominio del peccato, sottratti da Dio alla potenza delle tenebre e trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. Intravedendo l'entità di tale beneficio, Geremia annunciava: "Dice il Signore: "Ecco, arrivano giorni, nei quali non si dirà più: 'Vive il Signore che trasse fuori i figli d'Israele dalla terra d'Egitto’, bensì 'Vive il Signore che trasse i figlioli d'Israele dalla terra boreale e da tutte le terre per cui li cacciai'. Io li raccoglierò nella terra, donata già ai loro padri. Ecco: invierò numerosi pescatori e li pescheranno" " (Ger 16,14-16).
Il Padre misericordioso, mediante il Figlio suo, radunò i figli dispersi, affinché, non più schiavi della colpa, ma della giustizia, lo serviamo nella santità e nel bene, apertamente, per tutti i giorni della nostra vita. Perciò i fedeli sapranno opporre come uno scudo a tutte le tentazioni la parola dell'Apostolo: "Morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso?" (Rm 6,2). Poiché non apparteniamo più a noi stessi, ma a colui che è morto per noi ed è risorto. Egli è il Signore nostro Dio, che ci comprò con il suo sangue; come potremo peccare contro il Signore nostro Dio e nuovamente crocifiggerlo?
Realmente liberi, di quella libertà che ci è conferita da Gesù Cristo, come avevamo usato male le nostre membra quali strumenti di male, usiamole ormai quali strumenti di bene sulle vie della santità.

Primo comandamento

4                    NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME


5                    Duplice valore del precetto

302 II parroco insegni anzitutto che il primo posto nel Decalogo spetta ai comandamenti che riguardano Dio; il secondo, a quelli che riguardano il prossimo; perché quanto facciamo al prossimo ha la sua ragione in Dio. Amiamo infatti il prossimo secondo lo spirito del comando divino, quando lo amiamo per amore di Dio. Tali precetti riguardanti Dio sono formulati nella prima tavola. In secondo luogo spiegherà come nella formula citata è racchiuso un duplice comando: il primo positivo, l'altro negativo, poiché il comando "Non avrai altro Dio fuori che me" contiene anche l'aggiunta: "rispetterai me come vero Dio, né presterai ossequio ad altri dei".
Nella prima parte, a loro volta, sono impliciti i precetti della fede, della speranza e della carità. Dicendo che Dio è immobile, immutabile, lo riconosciamo, a buon diritto, sempre uguale a se stesso e verace: dunque è necessario che, aderendo ai suoi oracoli, prestiamo pieno assenso alla sua autorità. Considerando poi la sua onnipotenza, la sua clemenza, la sua facilità a beneficare, come potremmo non riporre in lui tutte le nostre speranze? E contemplando le ricchezze della sua bontà e del suo amore riversate su di noi, potremmo non amarlo? Di qui il preambolo e la conclusione che, nel formulare comandi, Dio usa costantemente nella Scrittura: "Io, il Signore".
Ecco, poi, la seconda parte del comandamento: "Non avrai altro Dio fuori che me". Il legislatore ha usato questa formula non perché tale verità non fosse sufficientemente chiara nel precetto positivo "Onorerai me come solo Dio"; poiché se è Dio, è unico, ma per la cecità dei moltissimi che, un tempo, pur credendo di venerare il vero Dio, prestavano culto a una moltitudine di dei. Di tali ve ne furono molti pure tra gli Ebrei che, secondo il rimprovero di Elia, zoppicavano da due lati. Tali furono pure i Samaritani, che onoravano contemporaneamente il Dio d'Israele e le divinità dei pagani.
Spiegato ciò, il parroco farà rilevare che questo è, fra tutti i comandamenti, il primo e più importante; non già per ordine di sola precedenza, ma per i suoi motivi, per la sua dignità e la sua eccellenza. Dio infatti deve riscuotere da noi un affetto e un ossequio infinitamente maggiori di quelli a cui possono aver diritto re e padroni. Egli ci ha creati, ci governa, ci ha nutriti fin da quando eravamo nel seno di nostra madre, ci ha tratto alla luce; egli ci fornisce il necessario alla vita e all'alimentazione.
Mancano a codesto comandamento coloro che non hanno fede, speranza e carità e sono tanti! Infatti rientrano in questa categoria gli eretici, gli increduli circa le verità proposte dalla Chiesa, nostra santa madre; coloro che prestano fede ai sogni, ai presagi e a tutte le altre vane fantasie; quelli che perdono la speranza della propria salvezza, cessando di confidare nella divina bontà; coloro, infine, che contano unicamente sulle ricchezze, sulla salute e sulle forze del corpo. Questa materia è più largamente spiegata da coloro che hanno scritto intorno ai vizi e ai peccati.

6                    Legittimità del culto dei santi

303 Spiegando questo precetto, il parroco insista nel mostrare come la venerazione e l'invocazione dei santi angeli e delle anime beate ammesse al godimento della gloria celeste, oppure il culto dei corpi e delle ceneri dei santi, sempre ammesso dalla Chiesa cattolica, non lo trasgredisce. Sarebbe folle il supporre che, vietando il re a chiunque altro di prendere il proprio posto e di esigere onore e rispetto reali, per questo imponga di non tributare ossequio ai suoi magistrati. Si dice, è vero, che i cristiani adorano gli angeli, seguendo le orme dei santi dell'Antico Testamento, ma non tributano loro la medesima venerazione attribuita a Dio. Che se leggiamo di angeli che talvolta hanno rifiutato la venerazione umana, si deve intendere che non vollero si mostrasse loro quell'ossequio che è dovuto unicamente a Dio (Ap 19,10; 22,9). Il medesimo Spirito Santo che proclama: "A Dio solo onore e gloria" (1 Tm 1,17) comanda di circondare di onore i genitori e gli anziani (Es 20,12; Dt 5,16; Lv 19,32).
Del resto uomini santi, che rispettavano l'unico vero Dio, adoravano, secondo la testimonianza biblica, i sovrani, vale a dire s'inchinavano supplichevoli dinanzi a loro (Gn 23,7.12; 42,6; 1 Sam 24,9). Ora, se sono così onorati i re, per mezzo dei quali Dio governa il mondo, agli spiriti angelici, della cui opera Dio si serve per reggere non solo la sua Chiesa, ma tutto l'universo, e che ci aiutano a liberarci ogni giorno dai più grandi pericoli dell'anima e del corpo, anche se non si mostrano visibili a noi, non renderemo un onore tanto più grande quanto più alta è la dignità di quelle intelligenze beate di fronte alla maestà dei regnanti?
Si tenga conto, inoltre, dell'intensa carità con cui essi ci amano. Ispirati da questa effondono preghiere, secondo la chiara testimonianza della Scrittura (Dn 10,13), per le regioni cui sono preposti, e assistono senza dubbio coloro dei quali sono custodi, offrendo le nostre preci e le nostre lacrime a Dio. Non disse forse il Signore nel Vangelo: "Guai a coloro che scandalizzano i bambini, perché gli angeli vedono sempre il volto del Padre che è nei cieli? " (Mt 18,6). Essi dunque si devono invocare, poiché sono continuamente al cospetto di Dio e assumono ben volentieri il patrocinio della nostra salvezza loro affidato.
Di invocazioni agli angeli esistono nella Sacra Scrittura esempi significativi. Giacobbe chiede all'angelo, con il quale aveva lottato, che lo benedica; lo costringe anzi a farlo, dichiarando che non lo lascerà libero, se non dopo averne ricevuta la benedizione (Gn 32,24.26). Ne la vuole soltanto da colui che scorgeva, ma anche da quegli che non vedeva, quando dice: "L'angelo che mi trasse da rutti i mali, benedica questi figlioli" (Gn 48,16).
Perciò è lecito anche dedurre che, lungi dal diminuire la gloria di Dio, l'onore tributato ai santi che si sono addormentati nel Signore, le invocazioni a essi rivolte, la venerazione portata alle loro reliquie e alle loro ceneri aumentano tanto più questa gloria, quanto meglio stimolano la speranza degli uomini, la rassodano spingendoli all'imitazione dei santi. Lo comprovano il secondo Concilio Niceno, quelli di Gangra e di Trento e infine l'autorità dei santi Padri. Per meglio riuscire nella confutazione di chi impugna questa verità, il parroco legga lo scritto di san Girolamo contro Vigilanzio e specialmente il Damasceno.
Quanto abbiamo detto è soprattutto confermato dalla consuetudine trasmessa dagli Apostoli, costantemente ritenuta nella Chiesa di Dio e appoggiata alle testimonianze della Scrittura, che celebra mirabilmente le lodi dei santi. Non si potrebbe desiderare nulla di più chiaro e di più solido. Di alcuni santi gli oracoli divini han tessuto l'elogio. Come gli uomini potrebbero rifiutare loro un onore particolare? (Sir 44ss).
Si rifletta che occorre invocarli e onorarli, anche perché essi offrono perennemente preci per la salvezza degli uomini e molti benefici elargiti da Dio sono dovuti al loro merito e al loro favore. Se infatti si fa gran festa in cielo per un peccatore pentito (Lc 15,7), non si adopreranno i cittadini del cielo per aiutare i penitenti? Se sono invocati e implorati, potranno non impetrare il perdono dei peccati, propiziandoci la grazia di Dio? Se alcuni obietteranno essere superfluo il patrocinio dei santi perché è Dio che sovviene alle nostre preghiere senza bisogno d'interpreti, si risponderà a queste empie voci con le parole di sant'Agostino: "Dio spesso non concede se non in seguito all'intervento efficace del mediatore che scongiura" (2 super Exod., q. 149). Ciò è confermato dagli esempi eloquenti di Abimelech e degli amici di Giobbe, ai quali Dio perdonò le colpe per le preghiere di Abramo e di Giobbe (Gn 20,17; Gb 42,8). Se qualcuno osserverà che il ricorso ai santi, quali intermediari e patroni, è dovuto alla povertà e debolezza della propria fede, gli si replicherà con l'esempio del centurione. Questi, pur essendo ricco di una fede che meritò la più alta lode da nostro Signore, tuttavia inviò a lui gli anziani dei giudei perché volessero impetrare la guarigione del suo servo malato (Mt 8,10; Lc 7,3).
Senza dubbio confessiamo che uno solo è il nostro mediatore, Gesù Cristo, il quale ci riconciliò con il Padre celeste con il suo sangue (Rm 5,10) e, garantita l'eterna redenzione, una volta entrato nel Santuario, non cessa un istante di intercedere per noi (Eb 9,12). Da ciò tuttavia non segue affatto che non sia lecito fare appello al favore dei santi. Se in realtà non fosse consentito di invocare il soccorso dei santi, perché abbiamo un solo patrono. Gesù Cristo, l'Apostolo non avrebbe davvero insistito nel volere che le preghiere dei fratelli viventi lo soccorressero presso il Signore (Rm 15,30). Dunque non solo la preghiera dei santi che sono in cielo, ma neppure quella dei giusti viventi possono attenuare la gloria e la maestà del Cristo mediatore.
Chi non scorgerà prove luminose dell'obbligo di onorare i santi e del patrocinio che essi assumono di noi nei prodigiosi fatti che si compiono presso i loro sepolcri, con la restituzione di occhi, mani, membra di ogni genere a chi ne mancava, con la resurrezione di morti tornati in vita, con il fatto di demoni cacciati dai corpi umani? Molti riferirono di averne udito il racconto; moltissimi, individui serissimi, di aver letto; né mancano testimoni ineccepibili, quali sant'Ambrogio e sant'Agostino, che attestarono nelle loro lettere di aver visto. Che più? Se le vesti, i panni e la stessa ombra dei santi ancora in vita scacciarono le malattie e ridonarono le forze, chi oserà porre in dubbio che Dio possa effettuare i medesimi portenti per mezzo delle ceneri, delle ossa e delle altre reliquie dei santi? Si ricordi quel cadavere che, portato per caso nel sepolcro di Eliseo, immediatamente rivisse a contatto del suo corpo (2 Re 13,21).

7                    Norme sulla illiceità delle immagini

304 Seguono le parole: "Non ti farai opere di scultura a immagine di cose esistenti nell'aria, sulla terra o nelle acque; non le adorerai, non presterai loro culto". Alcuni, ritenendo che fosse qui enunciato un secondo precetto, pensarono che i due ultimi precetti del Decalogo ne formassero invece uno solo. Ma sant'Agostino, considerando quei due ultimi come distinti, afferma che le parole in questione appartengono al primo precetto (2 super Exod., q. 71) e noi adottiamo volentieri simile sentenza, che è comunissima nella Chiesa. Ma c'è di rincalzo l'ottima ragione che, nel testo biblico (Es 20,4s), premio e castigo per il precetto sono enunciati al termine di questa pericope in maniera unitaria come per ciascun precetto.
Né si creda che con tale precetto sia del tutto vietata l'arte di dipingere, di rappresentare, di scolpire. Leggiamo infatti nelle Scritture che, per comando divino, furono fatti simulacri e immagini di cherubini (Es 25,18; 1 Re 6,23s; 2 Cr 3,7) e del serpente di bronzo (Nm 21,8). Dobbiamo perciò interpretare la proibizione nel senso che, prestando ai simulacri un culto come a delle divinità, si viene a togliere qualcosa al vero culto di Dio.
E’ chiaro che, nell'ambito di questo comandamento, in due modi possiamo gravemente ledere la divina maestà. In primo luogo, venerando come divinità idoli e simulacri, o ritenendo che dimori in essi qualche virtù divina, per cui si debba prestar loro venerazione, si possa chieder loro qualcosa e riporre in essi quella fiducia che vi riponevano una volta i pagani, rimproverati spesso dalla Scrittura di collocare la loro speranza negli idoli. In secondo luogo tentando di raffigurare con i mezzi dell'arte la forma della divinità, quasi che questa possa scorgersi con gli occhi corporei, o esprimersi con colori e figure. Esclama il Damasceno: "Chi potrà esprimere un Dio che non cade sotto la presa dei sensi, non ha corpo, non può essere circoscritto in alcun termine, né descritto da alcuna rappresentazione?" (Exp. fìdei, 4, 16).
Più ampiamente spiega la cosa il secondo Concilio Niceno (Actio 7). Luminosamente l'Apostolo disse dei pagani che avevano deformato la gloria di Dio incorruttibile, riducendola alle immagini dell'uomo corruttibile, degli uccelli, dei quadrupedi, dei serpenti (Rm 1,23), venerando come divinità simulacri di questa foggia. Anche gli Israeliti, che dinanzi al simulacro del vitello gridavano: "Ecco, o Israele, i tuoi dei che ti trassero fuori dalla terra di Egitto" (Es 32,4) furono chiamati idolatri, avendo ridotto la gloria divina alle proporzioni di una bestia erbivora (Sal 105,20).
Avendo quindi il Signore rigorosamente vietato di prestar culto a divinità straniere per sopprimere ogni infiltrazione idolatrica, proibì pure di trarre dal bronzo o da qualsiasi altra materia rappresentazioni della divinità. Illustrando il divieto, Isaia esclama: "A quale cosa avete voi rassomigliato Dio? Quale immagine farete di lui?" (Is 40,18). Che tale sentenza sia racchiusa in questo precetto risulta, oltre che dagli scritti dei santi Padri che, secondo l'esposizione del settimo Concilio (Actio 7), l'interpretano a questa maniera, anche dalle parole abbastanza esplicite del Deuteronomio, dove Mosè, volendo allontanare il popolo dall'idolatria, dice: "Non vedeste nessuna immagine il giorno in cui il Signore. sull'Oreb, vi parlò di mezzo al fuoco" (Dt 4,15). Così si esprimeva il sapientissimo legislatore, affinché, cadendo in errore, non si foggiassero un simulacro della divinità e finissero con il tributare a una cosa creata l'onore dovuto a Dio.

8                    Utilità del culto delle immagini

305 Non si creda tuttavia che sia un mancare alla religione e un trasgredire la Legge di Dio l'esprimere con figure sensibili, adoperate nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, qualche Persona della santissima Trinità. Non v'è infatti individuo così grossolano che possa ritenere espressa da quella figura la divinità. A ogni modo il parroco spieghi come, mediante quelle figure, siano significate proprietà o azioni attribuite a Dio. Così quando, sulle indicazioni di Daniele (Dn 7,9), si rappresenta il Vegliardo dei giorni seduto sul trono, con i libri aperti dinanzi, si vuole significare l'eternità e l'infinita sapienza di Dio, in virtù delle quali egli scorge tutti i pensieri e le azioni degli uomini per giudicarli.
Gli angeli, poi, vengono raffigurati in forme umane e con le ali perché i fedeli comprendano quanto essi siano ben disposti verso il genere umano e come siano pronti a eseguire le incombenze volute dal Signore. Sono infatti spiriti al servizio di coloro che bramano l'eredità della salvezza (Eb 1,14). Il simbolo della colomba e le lingue di fuoco menzionati nel Vangelo [Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22; Gv 1,32) e negli Atti degli apostoli (2,3) quali proprietà esprimano dello Spirito Santo è troppo noto perché occorra darne ampia spiegazione.
Siccome, poi, nostro Signore Gesù Cristo, la sua santa e purissima Genitrice e tutti i santi dotati di natura umana ebbero naturalmente figura umana, non solo non è vietato dal presente precetto dipingerne e onorarne le immagini, ma è stato sempre considerato come atto che manifesta, in modo sicuro, animo grato e devoto. Lo confermano i monumenti dell'età apostolica, i concili ecumenici, innumerevoli scritti di Padri dottissimi e religiosissimi, tutti concordi fra loro.
Il parroco insegnerà che non solo è lecito tenere immagini nelle chiese, onorarle e prestar loro culto, purché la venerazione prestata s'intenda diretta ai loro prototipi, ma mostrerà anche come ciò sia stato fatto sempre, fino a oggi, con grandissimo vantaggio dei fedeli, come si vede fra l'altro dal libro del Damasceno sulle immagini e dal settimo Concilio che è il secondo Niceno.
Ma l'avversario del genere umano si sforza sempre con le sue frodi e sofismi di pervertire le istituzioni più sante. Per questo il parroco, nel caso che il popolo sgarri, cercherà di fare quanto è in lui per correggere gli abusi, secondo il decreto del Concilio Tridentino, e senz'altro, all'occasione, ne commenterà il testo stesso. Mostri agli incolti e a coloro che ignorano l'uso stesso delle immagini, che queste mirano a far conoscere la storia dei due Testamenti e ad alimentarne la memoria, cosicché, stimolati dal ricordo delle divine gesta, siamo sempre più tratti a venerare e amare Dio. Insegnerà pure che le immagini dei santi sono poste nei templi affinché essi siano onorati e noi, sulle loro orme, ne riproduciamo la vita e i santi costumi.

9                    Pene contro i trasgressori del primo comandamento

306 "Io sono il Signore Dio tuo, forte, geloso, che faccio ricadere l'iniquità dei padri nei figli, fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano e, nel medesimo tempo, misericordioso abbondantemente verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti " (Es 20,5s).
Due cose vanno spiegare a proposito di quest'ultima parte del precetto. Anzitutto che, sebbene a causa della maggiore gravità della trasgressione del primo precetto e dell'inclinazione degli uomini a commetterla, la pena sia opportunamente qui menzionata, in realtà si trarrà di un'appendice comune a tutti i precetti. Ogni legge infatti spinge gli uomini al rispetto delle prescrizioni con il premio e con la pena. Per questo frequenti promesse divine sono disseminate nella Sacra Scrittura. Tralasciando quelle pressoché innumerevoli contenute nel Vecchio Testamento, ricordiamo le parole del Vangelo: "Se vuoi entrare nella vita, rispetta i comandamenti" (Mt 19,17) e altrove: "Solo chi adempie il volere del Padre mio che è nei cieli entrerà nel regno celeste" (Mt 7,21). In un altro luogo: "Ogni albero che non fa buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco" (Mt 3,10). Altrove: "Chiunque si adira contro suo fratello, sarà condannato in giudizio" (Mt 5,22). Infine: "Se non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre mancanze" (Mt 6,15).
In secondo luogo si ricordi che questa appendice deve essere spiegata in maniera molto diversa agli individui perfetti e a quelli carnali. Ai primi infatti, che operano sotto la guida di Dio (Rm 8,14) e a lui obbediscono con animo alacre e docile, esso parla quale annuncio di letizia e quale prova luminosa del volere divino, ben disposto verso di loro. Essi riconoscono così la premura di Dio, amantissimo di loro, il quale, ora con i premi, ora con le pene, quasi costringe gli uomini al proprio culto e alla religione. Ne scorgono così l'infinita bontà e vedono che cosa comandi loro e come voglia far convergere la loro opera verso la gloria del nome divino. Né solo riconoscono tutto ciò, ma nutrono speranza che Dio, come comanda ciò che vuole, così darà le forze necessario per obbedire alla sua Legge.
Per gli individui carnali, invece, non ancora affrancati dallo spirito del servaggio e che si tengono lontani dal peccato più per timore delle pene che per amore della virtù, quell'appendice ha sapore di forte agrume. Perciò dovranno essere incoraggiati con esortazioni pie e quasi condotti per mano là dove vuole la Legge. Ogni volta che venga l'occasione di spiegare uno qualsiasi dei comandamenti, il parroco tenga presenti queste considerazioni.

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11                Due stimoli

307 Mirando agli uomini carnali come agli spirituali, egli adotterà i due pungoli o stimoli contenuti nell'appendice del precetto, capaci di eccitare efficacemente gli uomini al rispetto della Legge.
In primo luogo si spieghi l'inciso, in cui è detto che Dio è forte, con tanto maggiore diligenza, in quanto spesso la carne, meno colpirà dai terrori delle divine minacce, va mendicando tutti i pretesti per sfuggire all'ira di Dio e alla pena stabilita. Chi però tiene per fermo che Dio è forte, ricorda piuttosto il motto del grande David: "Dove mi rifugerò lungi dal tuo spirito? Dove, lungi dal tuo volto?" (Sal 138,7). La stessa carne, diffidente talora delle divine promesse, si raffigura così forti i nemici da reputarsi incapace di resistenza. Invece la fede salda e sicura, nulla temendo, poggiata com'è sulla forza e la virtù divina, conforta e rafforza gli uomini, esclamando: "II Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi avrò paura? " (Sal 26,1).
L'altro stimolo è rappresentato dalla stessa gelosia divina. Infatti gli uomini pensano talora che Dio non curi le cose umane e non si preoccupi neppure del nostro ossequio o della nostra disobbedienza alla Legge. Ne segue un grande disordine nella vita. Ma se noi ricordiamo che Dio si preoccupa di tutto, saremo più attenti al nostro compito.
Naturalmente quella specie di gelosia, che attribuiamo a Dio, non implica un turbamento dell'animo, ma solo quel divino amore e quell'alta carità, per cui Dio non tollera che un'anima si allontani impunemente da lui (Sal 72,27) e irrimediabilmente punisce quanti se ne allontanano. La gelosia è dunque in Dio quella sua serenissima e sincera giustizia, per la quale l'anima, corrotta dalle false opinioni e dalle perverse cupidigie, è ripudiata e, quasi adultera, allontanata dal connubio divino.
Tale gelosia divina la sperimentiamo invece come un sentimento soavissimo e dolcissimo, quando l'alta e ineffabile volontà di Dio verso di noi si manifesta da questo stesso zelo per noi. Non v'è fra gli uomini amore più appassionato, unione più intima di quella che vien data dal vincolo coniugale. Orbene, Dio mostra di quale amore ci prediliga, quando, paragonandosi spesso allo sposo e al marito, si dichiara geloso. Il parroco si fermi perciò a dimostrare come gli uomini debbano essere tanto preoccupati del culto e dell'onore divino, da essere detti anch'essi a buon diritto piuttosto gelosi che amanti, sull'esempio di colui il quale ha detto di sé: "Mi sono mostrato geloso dell'onore del Signore Dio degli eserciti" (1 Re 19,14). Imitino Cristo stesso che disse: "Lo zelo per la tua casa mi divora" (Sal 68,10; Gv 2,17).
Deve essere poi spiegata la sentenza di minaccia. Dio non tollera che i peccatori rimangano impuniti, ma li castigherà, come un padre fa con i figli, o li punirà duramente come un giudice severo. Volendo significare ciò, Mosè ha detto: "Constaterai che il Signore Iddio tuo è Dio forte e fedele: egli rispetta il patto e usa misericordia a chi lo ama; rispetta i suoi precetti fino alla millesima generazione, ma anche ripaga senza indugio chi lo odia" (Dt 7,9). E Giosuè: "Non potrete servire il Signore, poiché Dio è santo e forte nel suo zelo; non perdonerà ai vostri scellerati peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete divinità straniere, egli si rivolgerà contro di voi, tormentandovi e determinando la vostra rovina" (Gs 24,19).
Il parroco ricordi al popolo che la maledizione divina si propaga fino alla terza e alla quarta generazione degli empi. Non già nel senso che i posteri debbano sempre necessariamente portare la pena delle colpe degli avi, ma nel senso che, se questi e i loro figli non hanno espiato, non tutta la loro posterità riuscirà a evitare l'ira e la pena divina.
Va ricordato in proposito l'esempio del re Giosia. Dio gli perdonò per la sua singolare pietà e gli concesse di scendere in pace nel sepolcro dei padri per non assistere alle sciagure dei tempi imminenti, determinate su Giuda e su Gerusalemme dall'empietà di Manasse suo avo. Ma, dopo la sua morte, la vendetta di Dio raggiunse i suoi posteri, non risparmiando neppure i figli di Giosia (2 Re 22,19s; 23,26ss).
In che modo poi queste parole della Legge si possano conciliare con la sentenza del Profeta: "L'anima che avrà peccato, perirà" (Ez 18,4) lo mostra chiaramente l'autorità di san Gregorio, che, concorde in questo con tutti gli antichi Padri, dice: "Chiunque imita l'iniquità di un malvagio genitore, è vincolato pure dalla colpa di lui; ma chi non ne imita la malvagità non porta il suo carico morale; per questo il figlio cattivo di un cattivo padre non sconta solamente le colpe proprie, ma anche quelle di suo padre, non avendo temuto di accoppiare alla perversione paterna, contro cui sa irato il Signore, anche la propria malvagità. È giusto del resto che colui il quale, sotto lo sguardo di un giudice severo, non ha ritegno di battere le vie di un genitore malvagio, sia tenuto nella vita presente a scontare pure le colpe dell'iniquo suo padre" (Moralia, 15, 51). Ricorderà però il parroco che la bontà e la misericordia di Dio superano la sua giustizia: rivela la sua ira infatti tino alla terza e alla quarta generazione, ma riversa la sua misericordia fino alla millesima.
L'inciso poi "per coloro che mi odiano" vuole rilevare la gravità del peccato. Che cosa c'è di più orribile e di più nefasto che odiare la Bontà per essenza e la Verità somma? Ciò vale per tutti i peccatori, perché, come chi rispetta i precetti di Dio, ama Dio (Gv 14,21), così chi disprezza la Legge di Dio e non rispetta i suoi comandamenti, giustamente può dirsi che lo odia.
Infine la frase ultima, "coloro che mi amano", insegna il modo e il motivo del rispetto della Legge. E infatti necessario che coloro i quali osservano la Legge di Dio siano indotti a obbedirgli dal medesimo amore che li spinge verso di lui: cosa che vedremo anche nella trattazione dei singoli comandamenti.

Secondo comandamento
NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO

Importanza del secondo comandamento
308 Nel primo comandamento della Legge divina, che comanda di onorare Dio piamente e santamente, è necessariamente incluso questo secondo che segue. Infatti, chi vuole che gli si tributi onore, chiede con questo stesso che si usino a suo riguardo sempre parole rispettose e si evitino termini dispregiativi, come apertamente ricordano le parole di Malachia: "II figlio rispetta il padre e il servo il suo padrone: se io son padre, dov'è l'onore che mi si deve?" (Ml 1,6). Tuttavia, data l'importanza della cosa, Dio volle separatamente emanare e formulare questa Legge sull'onore dovuto al suo nome santissimo e divino.
Tragga di qui il parroco la convinzione che non basta parlare di tale argomento in termini generici. Si tratta di un tema su cui deve fermarsi a lungo, enumerando con ogni cura ai fedeli tutto ciò che vi si riferisce. Non tema mai di eccedere in diligenza, perché non mancano individui cosi accecati nelle tenebre dell'errore da osare di bistrattare, con le parole, chi è glorificato dagli angeli. Non impressionati dalla Legge una volta emanata, costoro non ristanno dall'offendere senza vergogna ogni giorno, ogni ora anzi, e quasi ogni minuto, la maestà di Dio. Non udiamo tutt'intorno giuramenti sprecati per ogni quisquilia, discorsi tutti infiorati di imprecazioni e scongiuri, fino al punto che nulla si vende, si acquista o si contratta, senza far intervenire la solennità di un giuramento, senza usurpare migliaia di volte il nome santissimo di Dio nelle cose più sciocche e insignificanti? Usi dunque il parroco tutta la sua diligenza nell'ammonire spesso i fedeli sulla gravità ripugnante di questa colpa.
Spiegando questo comandamento, non si dimentichi che la Legge implicitamente accoppia alla proibizione l'imposizione di ciò che gli uomini devono fare. Proibizione e imposizione devono essere spiegate però separatamente. In primo luogo, perché più agevole ne sia l'esposizione, si indichi ciò che la Legge comanda, poi quello che proibisce. Comanda che il nome di Dio sia onorato e con esso non si facciano che giuramenti santi; proibisce poi di offenderlo, di invocarlo stoltamente, di giurare con esso
alcunché di falso, di vano, di temerario.

12                Come si onora il nome di Dio

309 Spiegando ai fedeli la parte in cui si comanda di tributare onore al nome divino, il parroco ricordi che con il nome di Dio non si intendono solamente le lettere, le sillabe, il puro vocabolo; si faccia invece riflettere sul suo valore, che designa la maestà onnipotente ed eterna del Dio uno e trino. Si capisce quanto stolta fosse la superstizione di alcuni giudei, che scrivevano il nome di Dio, ma non osavano pronunciarlo, quasi che tutto consistesse nelle quattro lettere ebraiche, anziché nella divina realtà. Sebbene sia detto al singolare: "Non nominare il nome di Dio", il divieto deve applicarsi non a un solo nome speciale, ma a tutti quelli che sogliono attribuirsi a Dio. Essi sono parecchi: per esempio, Signore, Onnipotente, Signore degli eserciti, Re dei re, Forte e altri simili, contenuti nella Scrittura, i quali tutti esigono uguale venerazione.
Insegnerà poi in quale modo debba prestarsi il debito onore al nome divino, perché il popolo cristiano, le cui labbra devono sciogliere inni ardenti di lode a Dio, non può ignorare queste cose, utilissime, anzi necessario alla salvezza. Molteplici sono le forme in cui può esprimersi la lode del nome divino, ma in quella che stiamo per citare sembra compresa l'importanza di tutte le altre.
Lodiamo anzitutto il Signore quando, al cospetto di tutti, lo riconosciamo fiduciosi come Dio e Signore nostro, professando insieme e proclamando che Gesù Cristo è l'autore della nostra salvezza. Lo stesso, quando attendiamo amorosamente alla conoscenza della parola con cui si è espressa la volontà di Dio, meditandola assiduamente, studiandola con cura, leggendo o ascoltando, secondo le capacità e le incombenze di  ciascuno di noi.
Parimenti veneriamo e celebriamo il nome divino, quando celebriamo, per dovere o per sentimento di pietà, le lodi divine e a Dio rendiamo grazie per ogni evento, prospero o avverso che sia. Dice il profeta: "Benedici, o anima mia, il Signore e non dimenticare le sue elargizioni" (Sal 102,2). Sono parecchi i salmi davidici in cui sono soavissimamente cantate, con senso squisito, le lodi di Dio ed è sommamente eloquente il fatto di Giobbe, esempio di pazienza, il quale, piombato in disgrazie terribili, non ristette giammai dal lodare Dio con animo invitto. Anche noi dunque, quando siamo afflitti dai dolori dei sensi e dello spirito, o siamo straziati dalla sventura, rivolgiamo le nostre forze alla lode alta di Dio, con la frase di Giobbe: "Sia benedetto il nome del Signore "(Gb 1,21).
Non si loda meno il Signore, però, invocandone fiduciosamente il soccorso affinché ci liberi dai mali, o almeno ci infonda forza e costanza per tollerarli serenamente. Il Signore stesso vuole che cosi facciamo: "Invocami nel dì della tribolazione; ti libererò e tu mi renderai onore" (Sal 49,15). Implorazioni di questo genere trovano mirabili esempi in copiosi passi biblici e specialmente nei salmi 16, 43 e 118.
Infine noi onoriamo il nome di Dio quando, a garanzia della parola data, lo invochiamo a testimone. Simile maniera di onorarlo differisce notevolmente dalle precedenti. Quelle che abbiamo enunciato, infatti, sono di loro natura così commendevoli che nulla v'è per gli uomini di più beatificante e di più desiderabile del trascorrere in esse notte e giorno. David esclama: "Canterò le lodi del Signore in ogni istante; la sua lode fiorirà incessantemente sulle mie labbra" (Sal 33,2). Invece il giuramento, per quanto buono in sé, non può essere lodevolmente usato di frequente. La ragione della divergenza sta nel fatto che il giuramento fu istituito solo per essere un rimedio all'umana fragilità, quale strumento di prova per quanto asseriamo. Ora, come le medicine corporali vanno usate solo quando è necessario e il loro uso frequente rappresenta un pericolo, così il giuramento non può essere benefico se non in caso di grave e seria opportunità. Se troppo spesso è ripetuto, lungi dal giovare, finisce con il recare sensibile danno.
Opportunamente insegna san Giovanni Crisostomo che il giuramento entrò nelle consuetudini umane molto tardi, quando nel mondo, non più giovane, ma adulto, il male si era propagato per lungo e per largo; tutto era fuori del proprio ordine, tutto era perturbato e sconvolto in una vasta confusione e, per disgrazia più grande di ogni altra, gli uomini tutti erano caduti in una ripugnante schiavitù dinanzi agli idoli. Allora, poiché nessuno, in mezzo alla iniqua doppiezza universale, poteva credere alla parola altrui, fu giocoforza invocarvi sopra la testimonianza di Dio.

13                Definizione del giuramento

310 Nell'ambito di questa parte del comandamento, il fine principale è di istruire i fedeli sul modo di usare santamente il giuramento. Il parroco quindi insegnerà anzitutto che giurare è chiamare Dio in testimonio, qualunque sia la formula adoperata per farlo. Dire: "Dio mi è testimone" o: "Per Iddio" è la stessa cosa. Si ha ancora giuramento quando, per ispirare fiducia, giuriamo nel nome di certe cose create, quali, per esempio, i Vangeli sacri di Dio, la Croce, le reliquie dei santi, il loro nome e simili. Ma poiché simili cose di per sé non sono capaci di conferire autorità e forza a un giuramento (ciò può farlo solo Dio, la cui divina maestà si riflette in esse) ne segue che chi giura per il Vangelo giura per Dio stesso, la verità del quale è contenuta e illustrata nei Vangeli. Lo stesso dicasi dei santi, che furono templi di Dio, credettero nella verità evangelica, la rispettarono con ogni ossequio, la propagarono fra i popoli.
Il giuramento è pure implicito in alcune formule di esecrazione, come quella adoperata da san Paolo: "Invoco Dio a testimone contro l'anima mia" (2 Cor 1,23). Chi pronunzia la formula del giuramento in questo modo si sottopone al giudizio di Dio, vendicatore della menzogna. Non neghiamo che alcune di queste formule possono intendersi prive della forza di un giuramento; sarà utile però applicare anche a esse le regole e le osservazioni formulate per il giuramento propriamente detto.
Vi sono due generi di giuramenti: con il primo, detto "assertorio", affermiamo con forza religiosa una cosa passata o presente. Così dice l'Apostolo nella lettera ai Galati: "Dio mi è testimone che io non mentisco" (Gai 1,20). Con il secondo, detto "promissorio", che comprende anche le minacce e riguarda il futuro, promettiamo e assicuriamo una cosa futura. A questa seconda categoria appartiene, per esempio, la promessa solenne fatta da David alla moglie Betsabea, nel nome di Dio, che suo figlio Salomone sarebbe stato l'erede del trono e gli sarebbe succeduto (1 Re, l,28ss).

14                Condizioni del giuramento legittimo

311 All'essenza del giuramento basta il chiamare Dio in testimone, ma perché esso sia giusto e santo si richiedono parecchie altre condizioni che devono spiegarsi con cura.
Come attesta san Girolamo, le ha brevemente enunciate Geremia, quando scrisse: "Giurerai, viva il Signore, con verità, con ponderazione e con giustizia" (Ger 4,2). Con queste poche parole egli ha riassunto gli elementi del perfetto giuramento: verità, ponderazione del giudizio e giustizia.
Al primo posto nel giuramento deve stare la verità, in quanto l'asserzione giurata deve essere vera e chi la emette la sappia tale, non per una leggera o temeraria congettura, ma in forza di saldissimi argomenti. Anche il giuramento promissorio esige la verità, dovendo colui che promette avere il proposito saldo di mantenere a suo tempo la promessa. L'uomo probo non si disporrà mai a promettere cosa contraria ai santissimi precetti di Dio e quel che avrà promesso di fare con giuramento giammai lo muterà, a meno che la situazione di fatto non sia così sostanzialmente cambiata che mantenere la promessa significherebbe incorrere nell'ira di Dio offeso. Anche David mostra quanto la verità sia necessaria nel giuramento, con il definire giusto colui che giura in favore del prossimo e non sa ingannare (Sal 14,4).
Segue il giudizio ponderato: non si deve giurare avventatamente, ma a ragion veduta. Chi vuol giurare, rifletta anzitutto se ce n'è la necessità e consideri la situazione in tutti i suoi aspetti, per accertarsi che veramente esige il giuramento. Tenga conto del tempo, del luogo e di tutte le altre circostanze. Non si faccia trascinare da odio, da amore o da qualsiasi altro perturbamento spirituale, ma solo dalla necessità delle cose. Se simile accurata indagine non sarà stata premessa, il giuramento sarà senza dubbio temerario, com'è quello di coloro che per le cose più futili, senza alcun serio motivo, quasi per una pessima consuetudine contratta, giurano a ogni istante. Così fanno ogni giorno venditori e compratori: quelli per vendere a più alto prezzo, questi per comprare a più basso; gli uni e gli altri esaltano o deprezzano, giurando, la mercanzia. Poiché i giovanetti mancano, a causa dell'età, di quell'acume che è necessario alla ponderazione richiesta dal giuramento, papa san Cornelio stabili che non si chieda mai il giuramento a ragazzi di età inferiore ai quattordici anni, epoca della pubertà.
Infine la giustizia: questa è necessaria soprattutto nei giuramenti promissori; perciò chi promette il disonesto e l'ingiusto pecca giurando e accumula peccato su peccato, se mantiene la promessa. Abbiamo di ciò un esempio nel Vangelo, dove si narra del re Erode che, vincolato da una perfida promessa, donò in premio alla ballerina la testa di san Giovanni Battista (Me 6,23). E può ricordarsi anche il giuramento degli Ebrei che, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, giurarono di non mangiare finché non avessero ucciso san Paolo (23,12).
Chi rispetti tutte queste clausole e circondi il giuramento con queste condizioni, come altrettanti presidi, potrà con tranquilla coscienza giurare, come si può mostrare con molti argomenti. L'immacolata e santa Legge di Dio non comanda forse: "Temerai il Signore Dio tuo; a lui solo servirai; nel suo nome giurerai"? (Dt 6,13). E David ha lasciato scritto: "Saranno lodati tutti coloro che giureranno nel suo nome" (Sal 62,12).
Del resto la Scrittura mostra come gli stessi luminari della Chiesa, i santissimi Apostoli, ricorsero al giuramento, come risulta pure dalle lettere di san Paolo. Si aggiunga che gli stessi angeli giurano talora, poiché è detto nell’Apocalisse di san Giovanni Evangelista che un angelo giurò nel nome di colui che vive nei secoli (10,6). Anzi giura Dio stesso, signore degli angeli. Leggiamo infatti nel Vecchio Testamento che Dio ripetute volte corrobora con giuramento le sue promesse ad Abramo (Gn 22,16; Es 33,1) e a David, il quale esclama a proposito del giuramento di Dio: "Ha giurato il Signore e non se ne pentirà: "Tu sei sacerdote in eterno, secondo l'ordine di Melchisedec" " (Sal 109, 4).
La ragione stessa spiega agevolmente come il giuramento sia lodevole se ne indaghiamo attentamente l'origine e la finalità. Il giuramento infatti nasce dalla fede che gli uomini hanno in Dio, autore di tutta la verità, incapace così di ingannarsi come di ingannare, agli occhi del quale tutto appare senza veli (Eb 4,13), che provvede con meravigliosa provvidenza e regge l'universo. Vivendo in tale fede, gli uomini invocano Dio a testimone della verità, perché è cosa empia non credere a lui. Il giuramento infine tende unicamente a comprovare la giustizia e l'innocenza umana, a chiudere le liti e le controversie, come insegna l'Apostolo nella sua lettera agli Ebrei (Eb 6,16).
A tale dottrina non possono contrapporsi le parole del Salvatore in san Matteo: "Udiste che fu detto agli antichi: "Non spergiurare, ma adempì con il Signore i tuoi giuramenti". Io però vi dico di non giurare in modo alcuno, né per il cielo che è trono di Dio, né per la terra, che è sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, che è la città del gran Re. Non giurare per la tua testa, perché non puoi far bianco o nero un solo capello. Ma sia il vostro parlare: sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5,33-37).
Non può infatti scorgersi in queste parole una proibizione formale e generale del giuramento, dal momento che abbiamo visto sopra come lo stesso Signore e gli Apostoli hanno giurato più volte. Dobbiamo pensare piuttosto che Gesù Cristo volle biasimare la distorta opinione dei giudei, che nel giuramento fosse da evitare soltanto la menzogna, finendo con il giurare e con il chiedere l'altrui giuramento ogni momento, per le cose più insignificanti. Il Salvatore deplora questo pessimo costume e impone di astenersi dal giurare, finché non lo richieda una necessità.
In realtà il giuramento è nato dalla fragilità umana e dal male; esso sta a indicare l'incostanza di chi giura o la diffidenza di colui per cui giuriamo, deciso a non credere in altra maniera. Però anche il bisogno può essere sufficiente motivo di scusa. La frase del Salvatore: "Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no" mostra senza dubbio che il giuramento è da lui vietato nelle conversazioni familiari e che non dobbiamo essere inclinati a emetterlo ogni momento.
Intorno a ciò dovranno essere caldamente ammoniti i fedeli, poiché, come mostrano le Scritture e gli insegnamenti dei Padri, mali pressoché infiniti sgorgano dalla eccessiva facilità a giurare. È scritto nel Siracide: "II tuo labbro non contragga l'abitudine del giurare: essa porta molti al precipizio". E poco dopo: "L'uomo che giura molto si riempirà di cattiveria e i malanni assedieranno la sua casa" (23,9.12). Molte belle considerazioni in materia si trovano nelle opere di san Basilio e di sant'Agostino contro la menzogna.
Fin qui abbiamo parlato di quel che è comandato; parliamo ora di quel che è vietato dal secondo comandamento.

Come si pecca contro questo comandamento
312 Ci viene proibito di invocare invano il nome di Dio. E’ quindi chiaro che pecca gravemente chi formula giuramenti senza motivo, ma temerariamente. La gravità della colpa traspare dalle stesse parole: "Non invocherai invano il nome del tuo Dio", quasi volesse così addurre la ragione per cui simile colpa è tanto grave e riprovevole, in quanto lede la maestà di colui che noi riconosciamo come nostro Dio e Signore.
È così vietato anzitutto di giurare il falso. Chi non rifugge dal peccato di porre sotto la garanzia di Dio il falso, fa gravissima ingiuria a Dio, attribuendogli o l'ignoranza, per cui suppone che non conosca una determinata verità, o una certa deformità di affetti, per cui lo suppone disposto a corroborare con il proprio nome la menzogna. Né giura falsamente solo colui che con giuramento afferma per vero quanto sa che è falso, ma anche chi giurando sostiene una cosa che, vera in se, è però da lui reputata falsa. Menzogna infatti è asserzione difforme dall'intimo convincimento; perciò anche costui mente ed è spergiuro.
Parimenti è spergiuro chi afferma con giuramento una cosa che ritiene vera, ma che è falsa, sempre nel caso che non abbia adottato tutte le precauzioni per formarsi un concetto chiaro e sicuro della medesima; in tal caso, sebbene fra parola e pensiero vi sia corrispondenza, costui contravviene al precetto. Vi contravviene pure chi promette con giuramento di far qualcosa e poi si propone di non farla, o effettivamente non la fa. Tale valutazione si applica anche a coloro che fecero a Dio un voto e non lo mantengono.
Si manca al precetto anche quando manchi la giustizia, uno dei tre coefficienti del giuramento legittimo. Chi giuri di commettere un peccato mortale, un omicidio, per esempio, pecca contro il comandamento, per quanto parli seriamente e sinceramente e il suo giuramento abbia quella nota di verità che già indicammo come indispensabile.
Vanno segnalati anche quei tipi di giuramento che nascono da un sentimento di dispregio, come nel caso di chi giuri di non voler obbedire ai consigli evangelici che esortano al celibato e alla povertà. Sebbene nessuno sia obbligato a osservarli, chi però giuri con solennità di non volerli seguire mostra di disprezzare e calpestare i consigli divini.
Inoltre viola questo precetto e pecca consapevolmente colui che giura il vero, sapendolo tale solo in base a fragili e remote congetture. Infatti, sebbene la verità accompagni simile giuramento, esso in qualche modo implica il falso, in quanto il giurare così negligentemente espone al più grande pericolo di spergiuro. Infine giura abusivamente chi giura per gli dei falsi e bugiardi. Quale cosa più difforme dalla verità che l'invocare a testimoni divinità menzognere e illusorie, al posto del vero Dio?
Vietando lo spergiuro, la Scrittura dice: "Non contaminerai il nome del tuo Dio" (Lv 19,12). È proibirà dunque ogni disistima di tutto ciò a cui, in virtù di questo comandamento, dobbiamo ossequio e, fra l'altro, della parola di Dio, veneranda agli occhi non solo delle persone pie, ma anche delle empie, come mostra nel Libro dei Giudici il racconto che riguarda Eglon re dei Moabiti (3,12ss). Orbene, gravissima ingiuria si arreca alla parola di Dio torcendo la Scrittura dal suo retto significato all'asserzione di dottrine eretiche ed empie. Ci ammonisce in proposito il principe degli Apostoli: " Vi sono nelle Scritture frasi ardue che gli ignoranti e i superficiali fraintendono a loro dannazione"  (2 Pt 3.16 ). Parimenti la Sacra Scrittura è contaminata quando le sue venerabili sentenze, da uomini sconsigliati, sono tratte a significati profani, sconvenienti, favolosi, sciocchi, magici, calunniosi e simili. Il sacro Concilio Tridentino vuole che si avverrà che ciò non si può fare senza peccato.
Infine, come onorano Dio coloro che ne implorano il soccorso nelle calamità, così gli negano il dovuto onore coloro che non ne invocano l'aiuto. David li redarguisce: "Non invocarono il Signore e tremarono di paura quando non v'era ragione di temere" (Sal 13, 5).
Ma di ben più detestabile scelleratezza si rendono rei coloro che osano, con labbra vergognosamente impure, bestemmiare e maledire il nome santo di Dio, che tutte le creature dovrebbero magnificare e benedire; oppure il nome dei santi che regnano con Dio.
Questo peccato è così mostruoso che la Scrittura talora, dovendo parlare della bestemmia, preferisce parlare di benedizione (1 Re 21,13).

15                Pene per i trasgressori del precetto

313 Poiché l'orrore per la punizione e il supplizio suole efficacemente comprimere l'inclinazione a peccare, il parroco che vuole eccitare più vivamente l'animo dei fedeli e stimolarlo al rispetto del comandamento ne spiegherà convenientemente la seconda parte o appendice: "II Signore non riterrà innocente colui che abbia invocato vanamente il nome del Signore stesso, suo Dio" (Es 20,7). Insegni anzitutto che ragionevolmente sono state unite al precetto le minacce che lumeggiano la gravità della colpa e la misericordia divina verso di noi. Egli non si compiace della dannazione degli uomini e, per indurci a evitare la sua ira punitrice, ci atterrisce con salutari minacce, affinché preferiamo sperimentarlo benevolo, anziché irato. Insista dunque il pastore su questo punto con ogni cura; faccia conoscere al popolo l'orrore della colpa, ne insinui più veemente abominazione, affinché i fedeli siano più diligenti nell'evitarla.
Voglia inoltre mostrare come sia sviluppata nell'uomo la tendenza a commetterla, non essendo stato sufficiente promulgare la Legge, poiché fu necessario aggiungerle delle minacce. Non si può immaginare quanto tale considerazione sia proficua. Come nulla è più pernicioso della spavalda sicurezza d'animo, così nulla è più giovevole della consapevolezza della propria nullità. Infine spieghi come Dio non abbia stabilito alcun determinato supplizio, ma semplicemente dichiarato che chiunque si macchia di questo delitto non sfuggirà alla vendetta. Perciò devono esserci di monito le nostre pene quotidiane, potendosi plausibilmente congetturare che gli uomini sono colpiti da sventure perché non obbediscono a questo precetto. E probabile che riflettendo a ciò se ne guarderanno più premurosamente per l'avvenire. In conclusione, ripieni di santo timore, i fedeli fuggano con ogni studio questo peccato. Se nel dì del giudizio ci sarà chiesto conto di ogni parola oziosa (Mt 12,36), che cosa dire dei peccati più gravi, che implicano una diretta offesa al nome divino?

Terzo comandamento

RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE

314 "Lavorerai per sei giorni, compiendo tutti i tuoi doveri. Ma il settimo giorno è del Signore Dio tuo; in quello, nulla farete tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua serva, il tuo giumento, l'ospite che dimora in casa tua; infatti in sei giorni il Signore fece il cielo, la terra e tutto ciò che è in essi e nel settimo giorno si riposò. Per questo il Signore benedisse il sabato e lo santificò."

16                Oggetto del comandamento

Con questo comando della Legge è giustamente e ordinatamente prescritto quel culto esterno che dobbiamo a Dio. Si tratta in fondo di un corollario del precedente comandamento. Non possiamo infatti astenerci dal prestare culto esterno e dall'offrire il nostro ringraziamento a colui che veneriamo nell'anima e in cui riponiamo la nostra fiducia e speranza; poiché le cure umane non permettono agevolmente agli uomini di assolvere simile compito, è stato fissato un tempo in cui possano farlo comodamente.
Trattandosi di comandamento che arreca mirabili frutti, preme che il parroco ponga ogni studio nel commentarlo. La prima parola della formula, "Ricordati", infiammerà già di per sé il suo zelo. Se i fedeli devono ricordare il precetto, spetta al pastore inculcarlo senza tregua nei loro cuori. Quanto poi convenga ai fedeli rispettarlo, traspare dal fatto che, ciò facendo, saranno portati a rispettare più facilmente i rimanenti obblighi della Legge. Infatti, tra le altre azioni da compiere nei giorni festivi v'è quella di recarsi in chiesa ad ascoltare la parola di Dio. Una volta istruiti nelle divine prescrizioni, i fedeli custodiranno con tutto il cuore la Legge del Signore.
Per questo il rispetto del sabato e il culto divino sono raccomandati spessissimo nella Scrittura, nell'Esodo per esempio, nel Levitico, nel Deuteronomio, in Isaia, in Geremia, in Ezechiele: dovunque si riscontrano passi che inculcano il rispetto del giorno festivo. Speciali esortazioni vanno rivolte a chi governa e ai magistrati affinché, per quanto riguarda il mantenimento e l'incremento del culto divino, pongano il loro potere a disposizione dei reggitori ecclesiastici e ordinino al popolo di sottostare alle prescrizioni sacerdotali.
Nella spiegazione del comandamento si deve aver cura che i fedeli sappiano in che cosa esso coincide con gli altri e in che cosa ne differisce; così comprenderanno perché noi rispettiamo e riteniamo per giorno sacro non più il sabato ma la domenica.
Una differenza intanto e questa: gli altri comandamenti del Decalogo sono naturali e perpetui, ne possono m nessun modo essere cambiati; sicché, per quanto la Legge di Mosè sia stata abrogata, il popolo cristiano rispetta sempre i comandamenti contenuti nelle due tavole, non in virtù della prescrizione mosaica, ma perché si tratta di precetti rispondenti alla natura, la cui forza stessa ne impone agli uomini il rispetto. Invece questo precetto del culto del sabato, per quanto riguarda il giorno prescelto, non è circoscritto e fisso, ma mutabile: non si riferisce ai costumi, ma ai riti; non è naturale, non avendoci istituito o comandato la natura di prendere un dato giorno, anziché un altro, per dare a Dio culto esterno; solamente dal tempo in cui il popolo d'Israele fu liberato dalla servitù del faraone, esso rispettò il sabato.
Al momento in cui tutti i riti ebraici e le cerimonie dovevano decadere, alla morte cioè di Cristo, anche il sabato doveva essere cambiato. Infatti, essendo tali cerimonie pallide immagini della luce. necessariamente sarebbero state rimosse all'avvento della luce e della verità, che è Cristo Signore. Scriveva in proposito san Paolo ai Galati, rimproverando i cultori del rito mosaico: "Voi osservate i giorni, i mesi, le stagioni, gli anni: temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo" (4,10). Nel medesimo senso si esprimeva con i Colossesi (2,16). E questo valga per le differenze.
Coincide invece con gli altri precetti non già nel rito e nelle cerimonie, ma in quanto implica qualcosa che rientra nella morale e nel diritto naturale. Il culto e l'ossequio religioso a Dio, formulati in questo comandamento, sgorgano infatti dal diritto di natura, essendo proprio la natura che ci spinge a consacrare qualche ora al culto di Dio. Non constatiamo infatti che tutti i popoli consacrano alcuni giorni alla pubblica celebrazione di sacre cerimonie? L'uomo è tratto da natura a dedicare un tempo determinato ad alcune funzioni elementari, quali il riposo del corpo, il sonno e simili. Per la stessa forza naturale è spinto a concedere, oltre che al corpo, un po' di tempo allo spirito, affinché si rinfranchi nel pensiero di Dio. Che in una parte del tempo si venerino le cose divine e si tributi a Dio il dovuto onore rientra quindi nell'insieme dei precetti riguardanti i costumi. Perciò gli Apostoli stabilirono che fra i sette giorni il primo fosse consacrato al culto divino e lo chiamarono giorno del Signore. Anche san Giovanni nell'Apocalisse ricorda il "giorno del Signore" (1,10). L'Apostolo comanda che si facciano collette ogni primo giorno della settimana (1 Cor 16,2), che è la domenica, secondo la spiegazione del Crisostomo. Evidentemente fin da allora il giorno domenicale era sacro.

17                Molteplici parti del comandamento

315 Affinché i fedeli sappiano come debbono comportarsi in quel giorno e da quali azioni si debbano astenere, non sarà male che il parroco spieghi minutamente il precetto, che può dividersi praticamente in quattro parti.
Anzitutto indicherà genericamente quel che prescrivono le parole: "Ricordati di santificare il sabato". Opportunamente al primo posto è stata collocata l'espressione "Ricordati", poiché il culto di questo giorno appartiene alla legge cerimoniale. Sembrò saggio ammonire formalmente in proposito il popolo, dal momento che la legge naturale, pur insegnando che in un dato tempo qualsiasi si doveva venerare Dio con culto religioso, non prescriveva in quale giorno di preferenza si dovesse fare.
In secondo luogo il parroco mostri ai fedeli come la formula suggerisca il modo ragionevole con cui dobbiamo lavorare durante la settimana, in maniera cioè da non perdere mai di vista il giorno festivo. In questo, dobbiamo quasi render conto a Dio delle nostre azioni e delle nostre opere; è necessario quindi che compiamo sempre azioni tali da non meritare la condanna di Dio e da non lasciare nei nostri spiriti, secondo il motto biblico, tracce di singhiozzi e di rimpianti (1 Sam 25,31).
Infine la formula ci insegna, e dobbiamo ben rifletterci, che non mancheranno le occasioni per dimenticare il precetto, trascinati dall'esempio di coloro che lo trascurano, assorbiti dagli spettacoli e dai giochi che allontanano troppo spesso dal pio e religioso rispetto del santo giorno.
Ma veniamo ormai a parlare del significato del sabato. Sabato, vocabolo ebraico, vuol dire "cessazione"; quindi "sabatizzare" vale "cessare" e "riposarsi". Il settimo giorno ricevette il nome di sabato, appunto perché, compiuto l'universo cosmico, Dio ristette dall'opera già compiuta (Gn 2,3). Così il Signore chiama questo giorno nell'Esodo (20,8.11). Più tardi tale nome fu conferito non più soltanto al settimo giorno, ma, a causa della sua dignità, a tutta la settimana. Per questo il fariseo dice nel Vangelo di san Luca: "Digiuno due volte nel sabato" (18,12). Questo per quanto riguarda il significato del sabato.
La santificazione del sabato, secondo le indicazioni bibliche, consiste nell'astensione da tutti i lavori e affari materiali, come indicano apertamente le parole seguenti del precetto: "Non lavorerai". Ma non è qui tutto; perché in tale ipotesi sarebbe stato sufficiente dire nel Deuteronomio: "Osserva il sabato" (5,12), mentre invece vi si aggiunge: "Per santificarlo". Dunque il giorno del sabato è un giorno religioso, che va consacrato ad azioni divine o a occupazioni sacre. Sicché lo rispetteremo integralmente se adempiremo gli atti di religione verso Dio. E questo è propriamente il sabato, che Isaia chiama "delizioso" (58,13), poiché i giorni festivi sono come le delizie del Signore e degli uomini pii. Che se al rispetto religioso così intero e santo del sabato aggiungeremo le opere di misericordia, allora, secondo la promessa del medesimo profeta (58,8), ci meriteremo premi inestimabili.
Dunque il pieno valore del comandamento esige che l'uomo ponga tutte le sue energie perché nei giorni fissati, lontano dagli affari e dal lavoro materiale, possa attendere al pio culto del Signore.

18                Misteri del giorno consacrato al Signore

316 Nella seconda parte del comandamento è detto che, per ordine divino, il settimo giorno è consacrato al culto di Dio. Sta scritto infatti: "Lavorerai per sei giorni e farai tutto quello che devi, ma il settimo giorno è il sabato del Signore Dio tuo". Tali parole vogliono significare che il sabato deve essere consacrato al Signore con opere di religione e che questo settimo giorno simboleggia il riposo del Signore. Fu consacrato a Dio perché non sarebbe stato bene rilasciare all'arbitrio del popolo rozzo scegliersi la giornata, con il pericolo di seguire le consuetudini sacre degli Egiziani.
Fra i sette giorni, fu prescelto l'ultimo per il culto del Signore e la cosa è piena di mistero; perciò Dio nell'Esodo (31,13) e in Ezechiele (20,12) chiama il sabato un "segno": "Badate a rispettare il mio sabato, perché è un segno pattuito fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché sappiate che io sono il Signore che vi santifica". Vale a dire: esso fu il segno che indicava agli uomini la necessità di dedicarsi a Dio, di mostrarsi santi ai suoi occhi, osservando come a lui era consacrata anche una giornata speciale. Infatti è santo il giorno in cui gli uomini devono in maniera particolare coltivare la santità e la religione. Inoltre il sabato è come un segno e un ricordo commemorativo dell'avvenuta formazione di questo mirabile universo. Di più, fu un segno tramandato alla memoria degli Israeliti perché fossero indotti a ricordare costantemente che l'aiuto di Dio li aveva affrancati dal durissimo giogo del dominio egiziano. Dice infatti il Signore: "Ricordati di essere stato schiavo in Egitto e che ti liberò di là il Signore Dio tuo con la forza della sua mano e l'intervento del suo braccio. Per questo ti impose di rispettare il sabato" (Dt 5,15).
Infine è il simbolo del sabato spirituale e di quello celeste. Il sabato spirituale consiste in un santo e mistico riposo e si celebra quando, sepolto in Cristo l'uomo vecchio (Rm 6,4), si rinasce a vita nuova e si compiono fervidamente azioni confacenti alla pietà cristiana. Allora coloro che erano una volta tenebre e ora invece sono luce nel Signore, procederanno sui sentieri della bontà, della giustizia, della verità, come figli della luce, astenendosi dal partecipare alle insane opere delle tenebre (Ef 5,8).
Il sabato celeste poi, secondo il commento di san Cirillo al passo apostolico "E lasciato un altro sabato al popolo di Dio" (Eb 4,9), consiste in quella vita, nella quale, vivendo con Cristo, godremo di tutti i beni, essendo estirpata ormai ogni radice di peccato, secondo il detto: "Non vi saranno leoni, non vi passeranno belve; ma ivi si aprirà una strada pura e santa" (Is 35, 8s). In realtà lo spirito dei santi consegue nella visione di Dio tutti i beni. Si esortino dunque i fedeli e si stimolino con le parole: "Affrettiamoci a entrare in quel supremo riposo" (Eb 4,11).
Il popolo giudaico rispettava, oltre il settimo giorno, anche altri giorni festivi stabiliti dalla Legge, affinché fosse sempre viva la memoria degli insigni benefici ricevuti.
La Chiesa di Dio trasportò la ricorrenza festiva del sabato alla domenica, perché in questo giorno, per la prima volta, brillò la luce sul mondo e in esso, in virtù della risurrezione del Redentore che aprì l'adito alla vita eterna, la nostra vita, affrancata dalle tenebre, fu ricondotta nelle regioni della luce. Perciò gli Apostoli lo chiamarono "giorno del Signore". Già nella Bibbia tale giorno appare solenne, come quello in cui ebbe principio la creazione del mondo e in cui lo Spirito Santo fu infuso negli Apostoli.
Agli inizi della Chiesa e nei tempi susseguenti, gli Apostoli e i nostri santi Padri istituirono altri giorni festivi, affinché alimentassimo sempre la memoria santa dei divini benefici. Fra gli altri son ritenuti più solenni i giorni che commemorano i misteri della nostra Redenzione, poi quelli consacrati alla santissima Vergine e Madre; infine quelli dedicati agli Apostoli, ai martiri, ai santi che regnano con Cristo. Nella vittoria di questi santi rifulge ed è esaltata la potente benevolenza di Dio; a essi viene tributato onore, anche perché il popolo sia stimolato a imitarne le virtù.
Al rispetto del comandamento induce pure efficacemente la parte della formula che dice: "Lavorerai per sei giorni; il settimo giorno è il sabato del Signore". Il parroco perciò deve copiosamente spiegarla. Da quelle parole è lecito desumere che i fedeli devono essere esortati a non trascorrere la loro esistenza nell'ozio, ma al contrario, memori della raccomandazione apostolica, ciascuno compia il suo lavoro con le proprie mani (1 Ts 4,11; Ef 4,2S). Con tale precetto, inoltre, il Signore comanda di non rimandare alla domenica nulla di ciò che dobbiamo compiere negli altri giorni, perché lo spirito non sia allontanato nel giorno festivo dalle occupazioni sante.

19                Quale lavoro è vietato nei giorni festivi

317 II parroco illustrerà poi la terza parte del comandamento, che spiega in quale modo si debba rispettare il sabato e da quali opere ci dobbiamo astenere. Dice il Signore: "In quel giorno non farete nulla: ne tu, ne tuo figlio, ne tua figlia, il tuo servo o la tua serva, il tuo giumento e il tuo ospite che è in casa tua". Con queste parole siamo avvertiti di evitare assolutamente quanto può ostacolare l'esercizio del culto divino. Si intuisce infatti che è vietato ogni genere di lavoro servile, non davvero perché questo sia di natura sua disonorevole e malvagio, ma solo perché ci allontana da quel culto divino che rappresenta lo scopo del precetto. A quanta maggior ragione i fedeli dovranno evitare in quel giorno i peccati, che non solamente distraggono lo spirito dall'esercizio delle cose divine, ma ci separano radicalmente dall'amore di Dio!
Non sono però vietate le azioni che appartengono al culto divino, anche se siano servili, quali apparecchiare l'altare, adornare il tempio per il di festivo e simili. Perciò il Signore ha detto che i sacerdoti possono nel tempio violare il sabato ed essere senza colpa (Mt 12,5). Neppure si devono ritenere vietate dalla Legge quelle azioni la cui sospensione nel giorno festivo può determinare gravi danni. Anche i sacri Canoni lo permettono. Il Signore nel Vangelo dichiarò che molte altre azioni possono compiersi nei giorni di festa e il parroco ne troverà agevolmente l'indicazione in san Matteo e in san Giovanni.
A ogni modo, perché nulla fosse omesso di tutto ciò che può impedire il rispetto del sabato, fu menzionato persino il giumento. Anche da questi animali sono impediti gli uomini dall'attendere alla celebrazione del sabato, poiché se in questo giorno si fa lavorare la bestia da soma, lavorerà anche l'uomo che deve guidarla. Essa non può da sola compiere un lavoro; soltanto aiuta l'uomo nel suo intento. E poiché di festa nessun lavoro è consentito, neppure alla bestia è lecito lavorare, essendo essa cooperatrice docile dell'uomo. Di modo che la Legge finisce con l'avere pure un'altra portata; poiché se Dio vuole che l'uomo risparmi gli animali nel lavoro, tanto più vuole che si astenga dall'essere disumano con coloro che hanno posto la loro capacità al suo servizio.
Il parroco infine non dimentichi di insegnare con cura in quali opere debbano invece trascorrere i cristiani i giorni festivi. Andranno in chiesa per assistere con devota attenzione al sacrificio della santa Messa, partecipare di frequente ai divini sacramenti della Chiesa, istituiti per la nostra salute e per la cura delle nostre ferite spirituali. Nulla può fare di meglio il cristiano che confessare spesso i suoi peccati ai sacerdoti. A tal fine il parroco esorterà di frequente il popolo, traendo copia di argomenti da quanto è stato detto e stabilito a proposito del sacramento della Penitenza. Ne si limiterà a stimolare il popolo ad accostarsi a questo sacramento, ma assiduamente lo spingerà ad avvicinarsi spesso al santo sacramento dell'Eucaristia.
I fedeli inoltre devono ascoltare con religiosa attenzione la predica. Che cosa di più intollerabile e di più indegno che il disprezzo, o l'indifferenza verso la parola di Gesù Cristo? Infine i fedeli devono esercitarsi nelle preci e nelle lodi divine, ponendo tutte le loro cure nell'apprendere le regole della vita cristiana. Metteranno in pratica premurosamente quei doveri che rientrano nella sfera della pietà, quali l'elemosina ai poveri e ai bisognosi, la visita agli infermi, la consolazione e il conforto agli addolorati. Come dice san Giacomo: "La religione pura e immacolata agli occhi di Dio Padre sta qui: visitare gli orfani e confortare le vedove nei loro affanni" (1,27).
Da quanto abbiamo detto sarà facile desumere quali siano le trasgressioni che si commettono contro questo comandamento.

20                Ragioni del comandamento

318 II parroco abbia sempre presenti passi autorevoli, da cui attingere argomenti capaci di indurre il popolo a obbedire scrupolosamente al precetto.
Il mezzo più efficace però è che il gregge dei fedeli comprenda bene la giustizia e la ragionevolezza dell'obbligo di dedicare alcuni giorni all'esclusivo culto di Dio, al riconoscimento e alla religiosa venerazione di nostro Signore, da cui ricevemmo incommensurabili e innumerevoli benefici. Se pure ci avesse comandato di compiere ogni giorno atti di culto religioso verso di lui, non dovremmo alacremente obbedire al suo cenno, in virtù dei suoi infiniti benefici? Invece ha voluto pochi giorni per sé. Potremo dunque essere negligenti nell'assolvere sì modesto compito, al quale non possiamo sottrarci senza gravissima colpa?
Mostri poi il parroco l'intimo valore del comandamento: chi l'osserva coscienziosamente non sembra costituito al cospetto di Dio, in colloquio con lui? In realtà rivolgendo preghiere a Dio ne contempliamo la maestà, parliamo con lui; ascoltando i predicatori, udiamo la voce di Dio, che arriva per loro mezzo alle nostre orecchie, quando trattano piamente delle cose divine; nel sacrificio dell'altare, poi, adoriamo presente nostro Signore Gesù Cristo.
Di tutti questi beni godono coloro che ubbidiscono al comandamento. Mentre chi lo trascura è ribelle a Dio e alla Chiesa, sordo al divino comando, realmente nemico di Dio e delle sue sante leggi. Basta riflettere al fatto che tale divino comandamento può essere rispettato senza alcun sacrificio. Dio non ha imposto ardue fatiche da affrontarsi in suo onore: ha voluto semplicemente che trascorressimo i suoi giorni festivi liberi da cure terrene. Non è dunque indizio di sfrontata temerità il rifiuto di obbedienza?
Ricordiamo i terrificanti supplizi a cui Dio sottopose i violatori del comando, quali sono narrati nel libro dei Numeri (15,32). Per non incappare in questa grave offesa di Dio, sarà bene ripetere mentalmente e molto spesso il monito "ricordati" e tenere costantemente dinanzi agli occhi gli insigni vantaggi, che abbiamo mostrato scaturire dal rispetto dei giorni festivi e tutte quelle argomentazioni, che il pastore zelante saprà a ogni occasione prospettare e illustrare.

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