PARTE TERZA
I PRECETTI DEL DECALOGO
Importanza del Decalogo
298 Sant'Agostino (cf. 2 super Exod., q. 130) esalta apertamente
il Decalogo come sintesi e riassunto di tutte le leggi: "Molte cose aveva
detto il Signore, eppure due sole tavole di pietra furono date a Mosè, dette
"tavole della testimonianza futura nell'arca"; perché tutto il resto
che il Signore aveva comandato si intende compreso nei dieci comandamenti
incisi nelle due tavole. Come del resto i medesimi dieci comandamenti dipendono
a loro volta dai due dell'amore di Dio e del prossimo, in cui sta, in sintesi,
tutta la Legge e tutto l'insegnamento dei Profeti".
Essendo qui il nucleo di
tutta la Legge, occorre che i pastori attendano giorno e notte a meditarlo, non
soltanto per uniformarvi la propria vita, ma anche per istruire nella
disciplina del Signore il gregge loro affidato. Sta scritto: "Le labbra
dei sacerdoti custodiranno la scienza e dalla loro parola sarà attinta la
Legge, poiché il sacerdote è l'angelo del Signore degli eserciti" (Ml
2,7). Questa sentenza si applica in modo particolare ai pastori della nuova
Alleanza che, essendo più vicini a Dio, devono ascendere di splendore in
splendore, in virtù dello spirito del Signore (2 Cor 3,18). Avendoli Gesù
Cristo insigniti del nome di luminari (Mt 5,14) è loro stretto compito fornire
luce a coloro che giacciono nelle tenebre, costituirsi istruttori degli
ignoranti, educatori dei fanciulli (Rm 2,19). Di più: essi, che sono
spirituali, dovranno soccorrere chi sia irretito nel peccato (Gal 6,1).
Inoltre essi sono giudici
nella confessione ed emanano sentenze secondo la qualità e la gravità dei
peccati. Perciò, se non vogliono essere imputati di incapacità e non vogliono
frodare gli altri, devono essere vigilantissimi nell'adempimento di tale
compito ed esperti nell'interpretazione dei divini precetti, in base ai quali
hanno da giudicare ogni azione e omissione. Secondo l'ammonimento dell'Apostolo,
impartiscano la sana dottrina (2 Tm 4,3), immune cioè da ogni errore, e curino
le malattie dell'anima, i peccati, sicché il loro popolo sia accetto a Dio e
dedito alle opere buone (Tt 2,14).
1 Esposizione del Decalogo
299 In queste esposizioni il
pastore proponga a sé e agli altri argomenti capaci di indurre all'obbedienza
della Legge.
Ora, tra le ragioni che
possono spingere gli spiriti degli uomini al rispetto dei precetti della Legge,
quella che riveste maggiore forza è questa: Dio ne è l'autore. Sebbene si dica
consegnata dagli angeli (Gal 3,19), nessuno può revocare in dubbio il fatto che
Dio stesso ne è l'autore. Ne danno ampia testimonianza non solamente le parole
dello stesso legislatore, che commenteremo fra poco, ma passi quasi innumerevoli
delle Scritture, che agevolmente occorreranno ai pastori. Del resto chi non
sente una legge divina inserita nel cuore, in virtù della quale sa distinguere
il bene dal male, l'onesto dal turpe, il giusto dall'ingiusto? E poiché la
forza regolatrice di questa legge naturale non è diversa affatto da quella
scritta, chi mai oserà negare che come Dio è l'autore della legge naturale, non
lo sia anche della Legge scritta?
Si deve dunque insegnare che,
consegnando la Legge a Mosè, Dio non conferì una luce nuova, bensì rinnovò il
fulgore di una luce che i costumi perversi e una diuturna negligenza avevano
miseramente oscurato. Questo perché il popolo cristiano non creda di essere
esonerato dal vincolo di queste leggi, perché la Legge di Mosè è stata abrogata.
È certissimo infatti che
dobbiamo obbedire a questi comandamenti, non perché sono stati imposti per
mezzo di Mosè, ma perché scolpiti nell'anima di ciascuno e da nostro Signore
spiegati e ratificati. A ogni modo gioverà moltissimo e rivestirà una singolare
virtù dimostrativa la considerazione che Dio, sulla sapienza e giustizia del
quale non è lecito sollevare dubbi e alla cui infinita e vigorosa potenza non
possiamo sottrarci, emanò la Legge. Perciò, comandando per mezzo dei Profeti di
rispettare la Legge, Dio dichiarava apertamente chi era e nell'esordio stesso
del Decalogo leggiamo: "Io sono il Signore Dio tuo" (Es 20,2).
Altrove: "Se io sono il Signore, dov'è il timore a me dovuto?" (Mal
1,6). Questo pensiero non solamente stimolerà le anime fedeli al rispetto dei
precetti divini, ma anche ad azioni di grazie, per avere Dio manifestata la sua
volontà, che è la via alla nostra salvezza.
Ripetute volte la Sacra
Scrittura, esaltando questo straordinario beneficio, ammonisce il popolo a
riconoscere la propria dignità e la benevolenza del Signore. Nel Deuteronomio è
scritto: "Qui sta la vostra saggezza e la vostra prudenza di fronte ai
popoli che, udendo questi comandamenti, esclameranno: "Ecco un popolo
saggio e prudente, ecco una grande nazione" " (Dt 4,6). E nei Salmi:
"Non si comportò così con nessun altro popolo e non rivelò ad altri i suoi
voleri " (Sal 147,20).
Se il parroco additerà
inoltre, sulla fede della Scrittura, il modo con il quale la Legge fu
consegnata, i fedeli comprenderanno anche più agevolmente con quanta pia
devozione debba essere rispettata una legge ricevuta da Dio. Tre giorni prima
infatti, per comando di Dio, tutti dovettero lavare le proprie vesti, astenersi
dai rapporti coniugali, per meglio predisporsi a ricevere la Legge; il terzo giorno
tutti si radunarono, ma, pervenuti al monte da cui il Signore voleva impartire
loro le Leggi per mezzo di Mosé, al solo Mosè fu concesso di salirvi. Allora
Dio vi discese con grande maestà, fra tuoni, lampi, fuoco e dense nuvole e
cominciò a parlare a Mosè, consegnandogli le Leggi (Es 19,10). Per una sola
ragione la divina sapienza volle tutto ciò: mostrarci che la Legge del Signore
va accolta con animo casto e umile e che, trasgredendo i comandamenti, noi
andiamo incontro a severe pene della giustizia divina.
Il parroco mostrerà del resto
come i precetti della Legge non implichino serie difficoltà e lo potrà fare
adducendo anche questa sola ragione di sant'Agostino: "Chi, di grazia,
vorrà definire impossibile per l'uomo amare, amare un Creatore benefico, un
Padre amantissimo e, in linea subordinata, la carne propria nei propri
fratelli? Orbene, chi ama ha adempito la Legge" (De mor. Eccl., 1, 25). Già l'Apostolo Giovanni assicura va
apertamente che i comandamenti di Dio non sono onerosi (1 Gv 5,3); infatti,
secondo la frase di san Bernardo, non si sarebbe potuto chiedere all'uomo nulla
di più giusto, di più dignitoso e di più fruttifero (De dilig. Deo, 1, 1).
Per questo, ammirando
l'infinita bontà di Dio, sant'Agostino esclama: "Che cosa è mai l'uomo, che
tu vuoi esserne amato e minacci gravi pene a chi non voglia farlo, come se già
non fosse pena immensa il non amarti? " (Confess., 1, 5). Se alcuno
accampa a sua scusa l'infermità della natura, che gli impedisce di amare Dio,
gli si mostri come lo stesso Dio, il quale chiede amore, instilla nei cuori la
capacità di amare, per mezzo dello Spirito Santo, che dal Padre celeste viene
concesso a chi lo invoca (Lc 11,13). È giusta quindi la formula di preghiera di
sant'Agostino: "Concedi quel che comandi e comanda quello che vuoi"
(Confess., 10,29). Poiché l'aiuto di Dio è a nostra disposizione, specialmente
dopo la morte di nostro Signore Gesù Cristo, per merito della quale il sovrano
di questo mondo è stato debellato, non c'è ragione di spaventarsi delle difficoltà
dei precetti, poiché nulla è arduo a chi ama.
Del resto, per esserne
persuasi, gioverà soprattutto riflettere sulla necessità di obbedire alla
Legge, non essendo mancato ai nostri tempi chi, empiamente e con massimo
proprio danno, ha osato sostenere che, facile o difficile, la Legge non è
necessaria alla salvezza. Il parroco
confuterà con le testimonianze bibliche questa insana ed empia opinione,
riferendosi specialmente all'Apostolo, della cui autorità si cerca di abusare
per sostenerla. Che cosa dice in sostanza l'Apostolo? Che non il prepuzio o la
circoncisione valgono qualcosa, ma solamente il rispetto dei precetti di Dio (1
Cor 7,19). E ripetendo altrove la medesima sentenza, aggiunge che in Gesù
Cristo conta solamente la nuova creatura (Gal 6,15), intendendo chiaramente di
chiamare così colui che si uniforma ai comandamenti divini. Chi infatti li
conosce e li rispetta ama Dio, come il Signore stesso dichiara in san Giovanni:
"Chi mi ama, osserverà le mie parole" (Gv 14,21). L'uomo può essere
giustificato e da malvagio divenir buono anche prima di praticare nelle azioni
esterne le singole prescrizioni della Legge; non può però, chi abbia già l'uso
della ragione, trasformarsi da peccatore in giusto, se non sia disposto a
osservare tutti i comandamenti di Dio.
2 Frutti del Decalogo
300 Infine, per non
dimenticare nulla di ciò che può indurre il popolo fedele all'osservanza della
Legge, il parroco mostri quanto ricchi e dolci frutti essa produca. Lo potrà
fare facilmente, ricordando quanto è scritto nel Salmo 18, consacrato a cantare
le lodi della Legge divina, fra cui massima appare la capacità di dare risalto
alla gloria e alla maestà di Dio, molto più di quanto non possano fare i corpi
celesti con il loro splendore e il loro ordine. Questi infatti, strappando
l'ammirazione alle genti più barbare, le portano a riconoscere la gloria, la
saggezza e la potenza dell'Artefice primo d'ogni cosa. Così la Legge divina
volge le anime a Dio (Sai 18,8); cosicché, scoprendo i suoi sentieri e la sua
santa volontà attraverso la Legge, a lui dirigiamo i nostri passi. E poiché
sono veramente sapienti solo coloro che temono Dio, Dio ha dato alla Legge la
capacità di infondere sapienza ai piccoli. In verità coloro che osservano la
Legge di Dio sono in possesso di autentici godimenti, della conoscenza dei
misteri divini e di intense gioie e ricompense, in questa vita come nella
futura.
Del resto la Legge deve
essere rispettata non solo per il nostro vantaggio, ma anche per l'onore di
Dio, il quale manifestò in essa la sua volontà al genere umano. Se tutte le
creature vi sottostanno, non è ancora più giusto che la rispetti l'uomo? Né va
dimenticata la singolarissima clemenza e bontà di Dio verso di noi. Avrebbe
potuto costringerci, senza la prospettiva di alcun premio, a servire alla sua
gloria. Eppure volle armonizzare questa con il nostro vantaggio, affinché la
nostra utilità tornasse anche a onore di Dio, particolare, questo,
importantissimo che il parroco ricorderà con le parole del Profeta: "Nel
custodire i tuoi precetti, o Signore, generosa è la mercede" (Sal 18,12).
Esso non abbraccia solamente benedizioni riguardanti la felicità terrena, come
la prosperità delle città e la fecondità dei campi (Dt 28,3), ma anche una
mercede copiosa in cielo (Mt 5,12), una misura buona, pigiata, scossa e
traboccante (Lc 6,38), meritata con le opere buone, compiute mediante l'aiuto
della divina misericordia.
3 Istituzione del Decalogo
301 Sebbene questa Legge sia
stata consegnata dal Signore sul monte agli Israeliti, tuttavia, essendo per virtù
di natura impressa molto tempo prima nell'animo di tutti e Dio avendo sempre
voluto che tutti gli uomini vi si uniformassero, sarà bene spiegare con cura le
parole con le quali da Mosè, strumento e interprete, fu annunciata agli Ebrei,
ricordando la storia israelitica che è tutta piena di misteri.
Esporrà dapprima come, fra
tutte le nazioni della terra, Dio ne prescelse una, originata da Abramo, che
egli volle pellegrino nella terra di Canaan. Di questa aveva promesso a lui il
possesso; eppure tanto lui che la sua posterità andò vagando per più di
quattrocento anni prima di potervi entrare ad abitarla. Mai però lasciò di
proteggerli durante il lungo vagare. Passarono infatti da popolo a popolo e da
un regno all'altro; mai però tollerò che si recasse loro ingiuria; al contrario
rintuzzò i re nemici. Prima che essi scendessero in Egitto, mandò innanzi a
loro un uomo che, con la sua preveggenza, doveva salvare dalla fame tanto essi
che gli Egiziani.
In Egitto li circondò di una
tale affettuosa tutela che, nonostante l'ostilità e la perenne minaccia del
faraone, poterono moltiplicarsi in maniera mirabile e quando le afflizioni
toccarono il culmino e cominciarono a essere trattati durissimamente come
schiavi, Dio suscitò Mosè quale condottiero, capace di trarli a salvezza con
mano energica.
Precisamente questa
liberazione è ricordata dal Signore all'inizio della Legge, con le parole:
"Io sono il Signore Dio tuo, che ti trassi fuori dalla terra d'Egitto,
dalla casa della schiavitù".
Il parroco porrà bene in luce
questa circostanza: Dio prescelse una sola fra tutte le nazioni perché fosse il
suo popolo eletto, da cui farsi conoscere e venerare in modo speciale, non già
perché superasse le altre in numero o virtù, come del resto il Signore stesso
ricorda agli Ebrei, ma solo perché a Dio piacque di sostenere e arricchire una
razza modesta e bisognosa, affinché la sua potenza e la sua bontà ne avessero
maggior gloria e fama nell'universo. Appunto per quella loro condizione, si
strinse con essi, li predilesse, non sdegnando neppure di esser detto loro Dio,
affinché gli altri popoli fossero stimolati a emulazione e, constatando la
felice condizione degli Israeliti, tutti gli uomini si convertissero al culto
del vero Dio. Anche san Paolo afferma di aver voluto provocare a emulazione la
propria gente, prospettando la beatitudine e la vera conoscenza di Dio, che
egli impartiva ai pagani.
Mostrerà poi ai fedeli come
Dio permise che gli antichi Ebrei peregrinassero a lungo e che i loro posteri
fossero premuti e vessati in durissima schiavitù, perché noi constatassimo che
solo chi è pellegrino sulla terra e osteggiato dal mondo può divenire amico di
Dio (sicché, per essere accolti più agevolmente nella dimestichezza di Dio,
occorre non aver nulla in comune con il mondo) e, inoltre, perché
comprendessimo, una volta passati al vero culto di Dio, quanto più felici siano
coloro che servono Dio, anziché il mondo. Ci ammonisce appunto Dio nella
Scrittura: "Servano pure a essi, perché conoscano l'abisso che separa il
mio servizio dal servizio dei re della terra" (2 Cr 12,8).
Ricorderà inoltre che Dio
anticipò più di quattrocento anni le sue promesse, affinché il popolo si
alimentasse costantemente di fede e di speranza, poiché Dio vuole che i suoi
fedeli dipendano sempre da lui e collochino nella sua bontà tutta la loro
fiducia, come diremo nella spiegazione del primo comandamento.
Infine indicherà il tempo e
il luogo in cui il popolo di Israele ricevette questa Legge da Dio. Fu
precisamente dopo l'uscita dall'Egitto e l'arrivo nel deserto, quando la
memoria grata del recente beneficio e l'asprezza paurosa del luogo dove si
trovava lo rendevano particolarmente atto ad accoglierla. Infatti gli uomini si
sentono in modo particolare vincolati a coloro di cui hanno sperimentato i
benefici e sogliono ricorrere all'aiuto di Dio quando si sentono abbandonati da
ogni speranza umana. Da ciò è facile arguire che i fedeli saranno tanto più
inclini ad accogliere la celeste dottrina, quanto più si terranno lontani dalle
gioie del mondo e dalle soddisfazioni carnali, secondo le parole del Profeta:
"A chi impartirà la scienza e a chi dischiuderà l'udito? A chi ha
abbandonato il latte e si è staccato dalle mammelle" (Is 28,9).
Compia il parroco ogni sforzo
perché il gregge fedele porti ognora scolpite in cuore le parole "Io sono
il Signore Dio tuo". Per esse intenderà come il suo legislatore è lo
stesso Creatore, da cui riceve l'esistenza e la conservazione. A buon diritto
così potrà esclamare: "Egli è il Signore Dio nostro: noi il popolo del suo
pascolo, il gregge che egli conduce" (Sal 94,7). La ripetizione frequente
e ardente di queste parole avrà la capacità di rendere i fedeli più pronti al
rispetto della Legge, più disposti a star lontani dal peccato.
Per quanto riguarda le parole
che seguono, "Io ti trassi dalla terra d'Egitto, dalla casa della
schiavitù", sebbene sembrino attagliarsi solamente agli Ebrei affrancati
dal giogo egiziano, in verità, se si badi al significato spirituale della
salvezza universale, appariranno molto più applicabili ai cristiani. Essi sono
strappati non già dalla schiavitù egiziana, bensì dal dominio del peccato,
sottratti da Dio alla potenza delle tenebre e trasferiti nel regno del Figlio
del suo amore. Intravedendo l'entità di tale beneficio, Geremia annunciava:
"Dice il Signore: "Ecco, arrivano giorni, nei quali non si dirà più:
'Vive il Signore che trasse fuori i figli d'Israele dalla terra d'Egitto’,
bensì 'Vive il Signore che trasse i figlioli d'Israele dalla terra boreale e da
tutte le terre per cui li cacciai'. Io li raccoglierò nella terra, donata già
ai loro padri. Ecco: invierò numerosi pescatori e li pescheranno" "
(Ger 16,14-16).
Il Padre misericordioso,
mediante il Figlio suo, radunò i figli dispersi, affinché, non più schiavi
della colpa, ma della giustizia, lo serviamo nella santità e nel bene,
apertamente, per tutti i giorni della nostra vita. Perciò i fedeli sapranno
opporre come uno scudo a tutte le tentazioni la parola dell'Apostolo:
"Morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso?" (Rm 6,2).
Poiché non apparteniamo più a noi stessi, ma a colui che è morto per noi ed è
risorto. Egli è il Signore nostro Dio, che ci comprò con il suo sangue; come
potremo peccare contro il Signore nostro Dio e nuovamente crocifiggerlo?
Realmente liberi, di quella
libertà che ci è conferita da Gesù Cristo, come avevamo usato male le nostre
membra quali strumenti di male, usiamole ormai quali strumenti di bene sulle
vie della santità.
Primo comandamento
4 NON AVRAI ALTRO DIO FUORI DI ME
5 Duplice valore del precetto
302 II parroco insegni
anzitutto che il primo posto nel Decalogo spetta ai comandamenti che riguardano
Dio; il secondo, a quelli che riguardano il prossimo; perché quanto facciamo al
prossimo ha la sua ragione in Dio. Amiamo infatti il prossimo secondo lo
spirito del comando divino, quando lo amiamo per amore di Dio. Tali precetti
riguardanti Dio sono formulati nella prima tavola. In secondo luogo spiegherà
come nella formula citata è racchiuso un duplice comando: il primo positivo,
l'altro negativo, poiché il comando "Non avrai altro Dio fuori che
me" contiene anche l'aggiunta: "rispetterai me come vero Dio, né
presterai ossequio ad altri dei".
Nella prima parte, a loro
volta, sono impliciti i precetti della fede, della speranza e della carità.
Dicendo che Dio è immobile, immutabile, lo riconosciamo, a buon diritto, sempre
uguale a se stesso e verace: dunque è necessario che, aderendo ai suoi oracoli,
prestiamo pieno assenso alla sua autorità. Considerando poi la sua onnipotenza,
la sua clemenza, la sua facilità a beneficare, come potremmo non riporre in lui
tutte le nostre speranze? E contemplando le ricchezze della sua bontà e del suo
amore riversate su di noi, potremmo non amarlo? Di qui il preambolo e la
conclusione che, nel formulare comandi, Dio usa costantemente nella Scrittura:
"Io, il Signore".
Ecco, poi, la seconda parte
del comandamento: "Non avrai altro Dio fuori che me". Il legislatore
ha usato questa formula non perché tale verità non fosse sufficientemente
chiara nel precetto positivo "Onorerai me come solo Dio"; poiché se è
Dio, è unico, ma per la cecità dei moltissimi che, un tempo, pur credendo di
venerare il vero Dio, prestavano culto a una moltitudine di dei. Di tali ve ne
furono molti pure tra gli Ebrei che, secondo il rimprovero di Elia, zoppicavano
da due lati. Tali furono pure i Samaritani, che onoravano contemporaneamente il
Dio d'Israele e le divinità dei pagani.
Spiegato ciò, il parroco farà
rilevare che questo è, fra tutti i comandamenti, il primo e più importante; non
già per ordine di sola precedenza, ma per i suoi motivi, per la sua dignità e
la sua eccellenza. Dio infatti deve riscuotere da noi un affetto e un ossequio
infinitamente maggiori di quelli a cui possono aver diritto re e padroni. Egli
ci ha creati, ci governa, ci ha nutriti fin da quando eravamo nel seno di
nostra madre, ci ha tratto alla luce; egli ci fornisce il necessario alla vita
e all'alimentazione.
Mancano a codesto
comandamento coloro che non hanno fede, speranza e carità e sono tanti! Infatti
rientrano in questa categoria gli eretici, gli increduli circa le verità
proposte dalla Chiesa, nostra santa madre; coloro che prestano fede ai sogni,
ai presagi e a tutte le altre vane fantasie; quelli che perdono la speranza
della propria salvezza, cessando di confidare nella divina bontà; coloro,
infine, che contano unicamente sulle ricchezze, sulla salute e sulle forze del
corpo. Questa materia è più largamente spiegata da coloro che hanno scritto
intorno ai vizi e ai peccati.
6 Legittimità del culto dei santi
303 Spiegando questo precetto,
il parroco insista nel mostrare come la venerazione e l'invocazione dei santi
angeli e delle anime beate ammesse al godimento della gloria celeste, oppure il
culto dei corpi e delle ceneri dei santi, sempre ammesso dalla Chiesa
cattolica, non lo trasgredisce. Sarebbe folle il supporre che, vietando il re a
chiunque altro di prendere il proprio posto e di esigere onore e rispetto
reali, per questo imponga di non tributare ossequio ai suoi magistrati. Si
dice, è vero, che i cristiani adorano gli angeli, seguendo le orme dei santi
dell'Antico Testamento, ma non tributano loro la medesima venerazione
attribuita a Dio. Che se leggiamo di angeli che talvolta hanno rifiutato la
venerazione umana, si deve intendere che non vollero si mostrasse loro quell'ossequio
che è dovuto unicamente a Dio (Ap 19,10; 22,9). Il medesimo Spirito Santo che
proclama: "A Dio solo onore e gloria" (1 Tm 1,17) comanda di
circondare di onore i genitori e gli anziani (Es 20,12; Dt 5,16; Lv 19,32).
Del resto uomini santi, che
rispettavano l'unico vero Dio, adoravano, secondo la testimonianza biblica, i
sovrani, vale a dire s'inchinavano supplichevoli dinanzi a loro (Gn 23,7.12;
42,6; 1 Sam 24,9). Ora, se sono così onorati i re, per mezzo dei quali Dio
governa il mondo, agli spiriti angelici, della cui opera Dio si serve per
reggere non solo la sua Chiesa, ma tutto l'universo, e che ci aiutano a
liberarci ogni giorno dai più grandi pericoli dell'anima e del corpo, anche se
non si mostrano visibili a noi, non renderemo un onore tanto più grande quanto
più alta è la dignità di quelle intelligenze beate di fronte alla maestà dei
regnanti?
Si tenga conto, inoltre,
dell'intensa carità con cui essi ci amano. Ispirati da questa effondono
preghiere, secondo la chiara testimonianza della Scrittura (Dn 10,13), per le
regioni cui sono preposti, e assistono senza dubbio coloro dei quali sono
custodi, offrendo le nostre preci e le nostre lacrime a Dio. Non disse forse il
Signore nel Vangelo: "Guai a coloro che scandalizzano i bambini, perché
gli angeli vedono sempre il volto del Padre che è nei cieli? " (Mt 18,6).
Essi dunque si devono invocare, poiché sono continuamente al cospetto di Dio e
assumono ben volentieri il patrocinio della nostra salvezza loro affidato.
Di invocazioni agli angeli
esistono nella Sacra Scrittura esempi significativi. Giacobbe chiede
all'angelo, con il quale aveva lottato, che lo benedica; lo costringe anzi a
farlo, dichiarando che non lo lascerà libero, se non dopo averne ricevuta la
benedizione (Gn 32,24.26). Ne la vuole soltanto da colui che scorgeva, ma anche
da quegli che non vedeva, quando dice: "L'angelo che mi trasse da rutti i
mali, benedica questi figlioli" (Gn 48,16).
Perciò è lecito anche dedurre
che, lungi dal diminuire la gloria di Dio, l'onore tributato ai santi che si
sono addormentati nel Signore, le invocazioni a essi rivolte, la venerazione
portata alle loro reliquie e alle loro ceneri aumentano tanto più questa
gloria, quanto meglio stimolano la speranza degli uomini, la rassodano
spingendoli all'imitazione dei santi. Lo comprovano il secondo Concilio Niceno,
quelli di Gangra e di Trento e infine l'autorità dei santi Padri. Per meglio
riuscire nella confutazione di chi impugna questa verità, il parroco legga lo
scritto di san Girolamo contro Vigilanzio e specialmente il Damasceno.
Quanto abbiamo detto è
soprattutto confermato dalla consuetudine trasmessa dagli Apostoli,
costantemente ritenuta nella Chiesa di Dio e appoggiata alle testimonianze
della Scrittura, che celebra mirabilmente le lodi dei santi. Non si potrebbe
desiderare nulla di più chiaro e di più solido. Di alcuni santi gli oracoli
divini han tessuto l'elogio. Come gli uomini potrebbero rifiutare loro un onore
particolare? (Sir 44ss).
Si rifletta che occorre
invocarli e onorarli, anche perché essi offrono perennemente preci per la
salvezza degli uomini e molti benefici elargiti da Dio sono dovuti al loro
merito e al loro favore. Se infatti si fa gran festa in cielo per un peccatore
pentito (Lc 15,7), non si adopreranno i cittadini del cielo per aiutare i
penitenti? Se sono invocati e implorati, potranno non impetrare il perdono dei
peccati, propiziandoci la grazia di Dio? Se alcuni obietteranno essere
superfluo il patrocinio dei santi perché è Dio che sovviene alle nostre
preghiere senza bisogno d'interpreti, si risponderà a queste empie voci con le
parole di sant'Agostino: "Dio spesso non concede se non in seguito
all'intervento efficace del mediatore che scongiura" (2 super Exod., q. 149). Ciò è confermato
dagli esempi eloquenti di Abimelech e degli amici di Giobbe, ai quali Dio
perdonò le colpe per le preghiere di Abramo e di Giobbe (Gn 20,17; Gb 42,8). Se
qualcuno osserverà che il ricorso ai santi, quali intermediari e patroni, è
dovuto alla povertà e debolezza della propria fede, gli si replicherà con
l'esempio del centurione. Questi, pur essendo ricco di una fede che meritò la
più alta lode da nostro Signore, tuttavia inviò a lui gli anziani dei giudei
perché volessero impetrare la guarigione del suo servo malato (Mt 8,10; Lc
7,3).
Senza dubbio confessiamo che
uno solo è il nostro mediatore, Gesù Cristo, il quale ci riconciliò con il
Padre celeste con il suo sangue (Rm 5,10) e, garantita l'eterna redenzione, una
volta entrato nel Santuario, non cessa un istante di intercedere per noi (Eb
9,12). Da ciò tuttavia non segue affatto che non sia lecito fare appello al
favore dei santi. Se in realtà non fosse consentito di invocare il soccorso dei
santi, perché abbiamo un solo patrono. Gesù Cristo, l'Apostolo non avrebbe
davvero insistito nel volere che le preghiere dei fratelli viventi lo
soccorressero presso il Signore (Rm 15,30). Dunque non solo la preghiera dei
santi che sono in cielo, ma neppure quella dei giusti viventi possono attenuare
la gloria e la maestà del Cristo mediatore.
Chi non scorgerà prove luminose
dell'obbligo di onorare i santi e del patrocinio che essi assumono di noi nei
prodigiosi fatti che si compiono presso i loro sepolcri, con la restituzione di
occhi, mani, membra di ogni genere a chi ne mancava, con la resurrezione di
morti tornati in vita, con il fatto di demoni cacciati dai corpi umani? Molti
riferirono di averne udito il racconto; moltissimi, individui serissimi, di
aver letto; né mancano testimoni ineccepibili, quali sant'Ambrogio e
sant'Agostino, che attestarono nelle loro lettere di aver visto. Che più? Se le
vesti, i panni e la stessa ombra dei santi ancora in vita scacciarono le
malattie e ridonarono le forze, chi oserà porre in dubbio che Dio possa
effettuare i medesimi portenti per mezzo delle ceneri, delle ossa e delle altre
reliquie dei santi? Si ricordi quel cadavere che, portato per caso nel sepolcro
di Eliseo, immediatamente rivisse a contatto del suo corpo (2 Re 13,21).
7 Norme sulla illiceità delle immagini
304 Seguono le parole:
"Non ti farai opere di scultura a immagine di cose esistenti nell'aria,
sulla terra o nelle acque; non le adorerai, non presterai loro culto".
Alcuni, ritenendo che fosse qui enunciato un secondo precetto, pensarono che i
due ultimi precetti del Decalogo ne formassero invece uno solo. Ma sant'Agostino,
considerando quei due ultimi come distinti, afferma che le parole in questione
appartengono al primo precetto (2 super
Exod., q. 71) e noi adottiamo volentieri simile sentenza, che è comunissima
nella Chiesa. Ma c'è di rincalzo l'ottima ragione che, nel testo biblico (Es
20,4s), premio e castigo per il precetto sono enunciati al termine di questa
pericope in maniera unitaria come per ciascun precetto.
Né si creda che con tale
precetto sia del tutto vietata l'arte di dipingere, di rappresentare, di scolpire.
Leggiamo infatti nelle Scritture che, per comando divino, furono fatti
simulacri e immagini di cherubini (Es 25,18; 1 Re 6,23s; 2 Cr 3,7) e del
serpente di bronzo (Nm 21,8). Dobbiamo perciò interpretare la proibizione nel
senso che, prestando ai simulacri un culto come a delle divinità, si viene a
togliere qualcosa al vero culto di Dio.
E’ chiaro che, nell'ambito di
questo comandamento, in due modi possiamo gravemente ledere la divina maestà.
In primo luogo, venerando come divinità idoli e simulacri, o ritenendo che
dimori in essi qualche virtù divina, per cui si debba prestar loro venerazione,
si possa chieder loro qualcosa e riporre in essi quella fiducia che vi
riponevano una volta i pagani, rimproverati spesso dalla Scrittura di collocare
la loro speranza negli idoli. In secondo luogo tentando di raffigurare con i
mezzi dell'arte la forma della divinità, quasi che questa possa scorgersi con
gli occhi corporei, o esprimersi con colori e figure. Esclama il Damasceno:
"Chi potrà esprimere un Dio che non cade sotto la presa dei sensi, non ha
corpo, non può essere circoscritto in alcun termine, né descritto da alcuna
rappresentazione?" (Exp. fìdei,
4, 16).
Più ampiamente spiega la cosa
il secondo Concilio Niceno (Actio 7).
Luminosamente l'Apostolo disse dei pagani che avevano deformato la gloria di
Dio incorruttibile, riducendola alle immagini dell'uomo corruttibile, degli
uccelli, dei quadrupedi, dei serpenti (Rm 1,23), venerando come divinità
simulacri di questa foggia. Anche gli Israeliti, che dinanzi al simulacro del
vitello gridavano: "Ecco, o Israele, i tuoi dei che ti trassero fuori
dalla terra di Egitto" (Es 32,4) furono chiamati idolatri, avendo ridotto
la gloria divina alle proporzioni di una bestia erbivora (Sal 105,20).
Avendo quindi il Signore
rigorosamente vietato di prestar culto a divinità straniere per sopprimere ogni
infiltrazione idolatrica, proibì pure di trarre dal bronzo o da qualsiasi altra
materia rappresentazioni della divinità. Illustrando il divieto, Isaia esclama:
"A quale cosa avete voi rassomigliato Dio? Quale immagine farete di
lui?" (Is 40,18). Che tale sentenza sia racchiusa in questo precetto
risulta, oltre che dagli scritti dei santi Padri che, secondo l'esposizione del
settimo Concilio (Actio 7),
l'interpretano a questa maniera, anche dalle parole abbastanza esplicite del
Deuteronomio, dove Mosè, volendo allontanare il popolo dall'idolatria, dice:
"Non vedeste nessuna immagine il giorno in cui il Signore. sull'Oreb, vi
parlò di mezzo al fuoco" (Dt 4,15). Così si esprimeva il sapientissimo
legislatore, affinché, cadendo in errore, non si foggiassero un simulacro della
divinità e finissero con il tributare a una cosa creata l'onore dovuto a Dio.
8 Utilità del culto delle immagini
305 Non si creda tuttavia che
sia un mancare alla religione e un trasgredire la Legge di Dio l'esprimere con
figure sensibili, adoperate nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, qualche Persona
della santissima Trinità. Non v'è infatti individuo così grossolano che possa
ritenere espressa da quella figura la divinità. A ogni modo il parroco spieghi
come, mediante quelle figure, siano significate proprietà o azioni attribuite a
Dio. Così quando, sulle indicazioni di Daniele (Dn 7,9), si rappresenta il
Vegliardo dei giorni seduto sul trono, con i libri aperti dinanzi, si vuole
significare l'eternità e l'infinita sapienza di Dio, in virtù delle quali egli
scorge tutti i pensieri e le azioni degli uomini per giudicarli.
Gli angeli, poi, vengono
raffigurati in forme umane e con le ali perché i fedeli comprendano quanto essi
siano ben disposti verso il genere umano e come siano pronti a eseguire le
incombenze volute dal Signore. Sono infatti spiriti al servizio di coloro che
bramano l'eredità della salvezza (Eb 1,14). Il simbolo della colomba e le
lingue di fuoco menzionati nel Vangelo [Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22; Gv 1,32) e
negli Atti degli apostoli (2,3) quali proprietà esprimano dello Spirito Santo è
troppo noto perché occorra darne ampia spiegazione.
Siccome, poi, nostro Signore
Gesù Cristo, la sua santa e purissima Genitrice e tutti i santi dotati di
natura umana ebbero naturalmente figura umana, non solo non è vietato dal
presente precetto dipingerne e onorarne le immagini, ma è stato sempre
considerato come atto che manifesta, in modo sicuro, animo grato e devoto. Lo
confermano i monumenti dell'età apostolica, i concili ecumenici, innumerevoli
scritti di Padri dottissimi e religiosissimi, tutti concordi fra loro.
Il parroco insegnerà che non
solo è lecito tenere immagini nelle chiese, onorarle e prestar loro culto,
purché la venerazione prestata s'intenda diretta ai loro prototipi, ma mostrerà
anche come ciò sia stato fatto sempre, fino a oggi, con grandissimo vantaggio
dei fedeli, come si vede fra l'altro dal libro del Damasceno sulle immagini e
dal settimo Concilio che è il secondo Niceno.
Ma l'avversario del genere
umano si sforza sempre con le sue frodi e sofismi di pervertire le istituzioni
più sante. Per questo il parroco, nel caso che il popolo sgarri, cercherà di
fare quanto è in lui per correggere gli abusi, secondo il decreto del Concilio
Tridentino, e senz'altro, all'occasione, ne commenterà il testo stesso. Mostri
agli incolti e a coloro che ignorano l'uso stesso delle immagini, che queste
mirano a far conoscere la storia dei due Testamenti e ad alimentarne la
memoria, cosicché, stimolati dal ricordo delle divine gesta, siamo sempre più
tratti a venerare e amare Dio. Insegnerà pure che le immagini dei santi sono
poste nei templi affinché essi siano onorati e noi, sulle loro orme, ne
riproduciamo la vita e i santi costumi.
9 Pene contro i trasgressori del primo comandamento
306 "Io sono il Signore
Dio tuo, forte, geloso, che faccio ricadere l'iniquità dei padri nei figli,
fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano e, nel
medesimo tempo, misericordioso abbondantemente verso coloro che mi amano e
osservano i miei comandamenti " (Es 20,5s).
Due cose vanno spiegare a
proposito di quest'ultima parte del precetto. Anzitutto che, sebbene a causa
della maggiore gravità della trasgressione del primo precetto e
dell'inclinazione degli uomini a commetterla, la pena sia opportunamente qui
menzionata, in realtà si trarrà di un'appendice comune a tutti i precetti. Ogni
legge infatti spinge gli uomini al rispetto delle prescrizioni con il premio e
con la pena. Per questo frequenti promesse divine sono disseminate nella Sacra
Scrittura. Tralasciando quelle pressoché innumerevoli contenute nel Vecchio
Testamento, ricordiamo le parole del Vangelo: "Se vuoi entrare nella vita,
rispetta i comandamenti" (Mt 19,17) e altrove: "Solo chi adempie il
volere del Padre mio che è nei cieli entrerà nel regno celeste" (Mt 7,21).
In un altro luogo: "Ogni albero che non fa buon frutto, sarà tagliato e
gettato nel fuoco" (Mt 3,10). Altrove: "Chiunque si adira contro suo
fratello, sarà condannato in giudizio" (Mt 5,22). Infine: "Se non
perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre
mancanze" (Mt 6,15).
In secondo luogo si ricordi
che questa appendice deve essere spiegata in maniera molto diversa agli
individui perfetti e a quelli carnali. Ai primi infatti, che operano sotto la
guida di Dio (Rm 8,14) e a lui obbediscono con animo alacre e docile, esso
parla quale annuncio di letizia e quale prova luminosa del volere divino, ben
disposto verso di loro. Essi riconoscono così la premura di Dio, amantissimo di
loro, il quale, ora con i premi, ora con le pene, quasi costringe gli uomini al
proprio culto e alla religione. Ne scorgono così l'infinita bontà e vedono che
cosa comandi loro e come voglia far convergere la loro opera verso la gloria
del nome divino. Né solo riconoscono tutto ciò, ma nutrono speranza che Dio,
come comanda ciò che vuole, così darà le forze necessario per obbedire alla sua
Legge.
Per gli individui carnali,
invece, non ancora affrancati dallo spirito del servaggio e che si tengono
lontani dal peccato più per timore delle pene che per amore della virtù,
quell'appendice ha sapore di forte agrume. Perciò dovranno essere incoraggiati
con esortazioni pie e quasi condotti per mano là dove vuole la Legge. Ogni
volta che venga l'occasione di spiegare uno qualsiasi dei comandamenti, il
parroco tenga presenti queste considerazioni.
10
11 Due stimoli
307 Mirando agli uomini
carnali come agli spirituali, egli adotterà i due pungoli o stimoli contenuti
nell'appendice del precetto, capaci di eccitare efficacemente gli uomini al
rispetto della Legge.
In primo luogo si spieghi
l'inciso, in cui è detto che Dio è forte, con tanto maggiore diligenza, in
quanto spesso la carne, meno colpirà dai terrori delle divine minacce, va
mendicando tutti i pretesti per sfuggire all'ira di Dio e alla pena stabilita.
Chi però tiene per fermo che Dio è forte, ricorda piuttosto il motto del grande
David: "Dove mi rifugerò lungi dal tuo spirito? Dove, lungi dal tuo volto?"
(Sal 138,7). La stessa carne, diffidente talora delle divine promesse, si
raffigura così forti i nemici da reputarsi incapace di resistenza. Invece la
fede salda e sicura, nulla temendo, poggiata com'è sulla forza e la virtù
divina, conforta e rafforza gli uomini, esclamando: "II Signore è la mia
luce e la mia salvezza; di chi avrò paura? " (Sal 26,1).
L'altro stimolo è
rappresentato dalla stessa gelosia divina. Infatti gli uomini pensano talora
che Dio non curi le cose umane e non si preoccupi neppure del nostro ossequio o
della nostra disobbedienza alla Legge. Ne segue un grande disordine nella vita.
Ma se noi ricordiamo che Dio si preoccupa di tutto, saremo più attenti al
nostro compito.
Naturalmente quella specie di
gelosia, che attribuiamo a Dio, non implica un turbamento dell'animo, ma solo
quel divino amore e quell'alta carità, per cui Dio non tollera che un'anima si
allontani impunemente da lui (Sal 72,27) e irrimediabilmente punisce quanti se
ne allontanano. La gelosia è dunque in Dio quella sua serenissima e sincera
giustizia, per la quale l'anima, corrotta dalle false opinioni e dalle perverse
cupidigie, è ripudiata e, quasi adultera, allontanata dal connubio divino.
Tale gelosia divina la
sperimentiamo invece come un sentimento soavissimo e dolcissimo, quando l'alta
e ineffabile volontà di Dio verso di noi si manifesta da questo stesso zelo per
noi. Non v'è fra gli uomini amore più appassionato, unione più intima di quella
che vien data dal vincolo coniugale. Orbene, Dio mostra di quale amore ci prediliga,
quando, paragonandosi spesso allo sposo e al marito, si dichiara geloso. Il
parroco si fermi perciò a dimostrare come gli uomini debbano essere tanto
preoccupati del culto e dell'onore divino, da essere detti anch'essi a buon
diritto piuttosto gelosi che amanti, sull'esempio di colui il quale ha detto di
sé: "Mi sono mostrato geloso dell'onore del Signore Dio degli
eserciti" (1 Re 19,14). Imitino Cristo stesso che disse: "Lo zelo per
la tua casa mi divora" (Sal 68,10; Gv 2,17).
Deve essere poi spiegata la
sentenza di minaccia. Dio non tollera che i peccatori rimangano impuniti, ma li
castigherà, come un padre fa con i figli, o li punirà duramente come un giudice
severo. Volendo significare ciò, Mosè ha detto: "Constaterai che il
Signore Iddio tuo è Dio forte e fedele: egli rispetta il patto e usa
misericordia a chi lo ama; rispetta i suoi precetti fino alla millesima
generazione, ma anche ripaga senza indugio chi lo odia" (Dt 7,9). E
Giosuè: "Non potrete servire il Signore, poiché Dio è santo e forte nel
suo zelo; non perdonerà ai vostri scellerati peccati. Se abbandonerete il
Signore e servirete divinità straniere, egli si rivolgerà contro di voi,
tormentandovi e determinando la vostra rovina" (Gs 24,19).
Il parroco ricordi al popolo
che la maledizione divina si propaga fino alla terza e alla quarta generazione
degli empi. Non già nel senso che i posteri debbano sempre necessariamente
portare la pena delle colpe degli avi, ma nel senso che, se questi e i loro
figli non hanno espiato, non tutta la loro posterità riuscirà a evitare l'ira e
la pena divina.
Va ricordato in proposito
l'esempio del re Giosia. Dio gli perdonò per la sua singolare pietà e gli
concesse di scendere in pace nel sepolcro dei padri per non assistere alle
sciagure dei tempi imminenti, determinate su Giuda e su Gerusalemme
dall'empietà di Manasse suo avo. Ma, dopo la sua morte, la vendetta di Dio
raggiunse i suoi posteri, non risparmiando neppure i figli di Giosia (2 Re
22,19s; 23,26ss).
In che modo poi queste parole
della Legge si possano conciliare con la sentenza del Profeta: "L'anima
che avrà peccato, perirà" (Ez 18,4) lo mostra chiaramente l'autorità di
san Gregorio, che, concorde in questo con tutti gli antichi Padri, dice:
"Chiunque imita l'iniquità di un malvagio genitore, è vincolato pure dalla
colpa di lui; ma chi non ne imita la malvagità non porta il suo carico morale;
per questo il figlio cattivo di un cattivo padre non sconta solamente le colpe
proprie, ma anche quelle di suo padre, non avendo temuto di accoppiare alla
perversione paterna, contro cui sa irato il Signore, anche la propria
malvagità. È giusto del resto che colui il quale, sotto lo sguardo di un
giudice severo, non ha ritegno di battere le vie di un genitore malvagio, sia
tenuto nella vita presente a scontare pure le colpe dell'iniquo suo padre"
(Moralia, 15, 51). Ricorderà però il
parroco che la bontà e la misericordia di Dio superano la sua giustizia: rivela
la sua ira infatti tino alla terza e alla quarta generazione, ma riversa la sua
misericordia fino alla millesima.
L'inciso poi "per coloro
che mi odiano" vuole rilevare la gravità del peccato. Che cosa c'è di più
orribile e di più nefasto che odiare la Bontà per essenza e la Verità somma?
Ciò vale per tutti i peccatori, perché, come chi rispetta i precetti di Dio,
ama Dio (Gv 14,21), così chi disprezza la Legge di Dio e non rispetta i suoi
comandamenti, giustamente può dirsi che lo odia.
Infine la frase ultima,
"coloro che mi amano", insegna il modo e il motivo del rispetto della
Legge. E infatti necessario che coloro i quali osservano la Legge di Dio siano
indotti a obbedirgli dal medesimo amore che li spinge verso di lui: cosa che
vedremo anche nella trattazione dei singoli comandamenti.
Secondo comandamento
NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO
Importanza del secondo comandamento
308 Nel primo comandamento
della Legge divina, che comanda di onorare Dio piamente e santamente, è
necessariamente incluso questo secondo che segue. Infatti, chi vuole che gli si
tributi onore, chiede con questo stesso che si usino a suo riguardo sempre
parole rispettose e si evitino termini dispregiativi, come apertamente
ricordano le parole di Malachia: "II figlio rispetta il padre e il servo
il suo padrone: se io son padre, dov'è l'onore che mi si deve?" (Ml 1,6).
Tuttavia, data l'importanza della cosa, Dio volle separatamente emanare e
formulare questa Legge sull'onore dovuto al suo nome santissimo e divino.
Tragga di qui il parroco la
convinzione che non basta parlare di tale argomento in termini generici. Si
tratta di un tema su cui deve fermarsi a lungo, enumerando con ogni cura ai
fedeli tutto ciò che vi si riferisce. Non tema mai di eccedere in diligenza,
perché non mancano individui cosi accecati nelle tenebre dell'errore da osare
di bistrattare, con le parole, chi è glorificato dagli angeli. Non
impressionati dalla Legge una volta emanata, costoro non ristanno
dall'offendere senza vergogna ogni giorno, ogni ora anzi, e quasi ogni minuto,
la maestà di Dio. Non udiamo tutt'intorno giuramenti sprecati per ogni
quisquilia, discorsi tutti infiorati di imprecazioni e scongiuri, fino al punto
che nulla si vende, si acquista o si contratta, senza far intervenire la
solennità di un giuramento, senza usurpare migliaia di volte il nome santissimo
di Dio nelle cose più sciocche e insignificanti? Usi dunque il parroco tutta la
sua diligenza nell'ammonire spesso i fedeli sulla gravità ripugnante di questa
colpa.
Spiegando questo
comandamento, non si dimentichi che la Legge implicitamente accoppia alla
proibizione l'imposizione di ciò che gli uomini devono fare. Proibizione e
imposizione devono essere spiegate però separatamente. In primo luogo, perché
più agevole ne sia l'esposizione, si indichi ciò che la Legge comanda, poi
quello che proibisce. Comanda che il nome di Dio sia onorato e con esso non si
facciano che giuramenti santi; proibisce poi di offenderlo, di invocarlo
stoltamente, di giurare con esso
alcunché di falso, di vano,
di temerario.
12 Come si onora il nome di Dio
309 Spiegando ai fedeli la
parte in cui si comanda di tributare onore al nome divino, il parroco ricordi
che con il nome di Dio non si intendono solamente le lettere, le sillabe, il
puro vocabolo; si faccia invece riflettere sul suo valore, che designa la
maestà onnipotente ed eterna del Dio uno e trino. Si capisce quanto stolta
fosse la superstizione di alcuni giudei, che scrivevano il nome di Dio, ma non
osavano pronunciarlo, quasi che tutto consistesse nelle quattro lettere
ebraiche, anziché nella divina realtà. Sebbene sia detto al singolare:
"Non nominare il nome di Dio", il divieto deve applicarsi non a un
solo nome speciale, ma a tutti quelli che sogliono attribuirsi a Dio. Essi sono
parecchi: per esempio, Signore, Onnipotente, Signore degli eserciti, Re dei re,
Forte e altri simili, contenuti nella Scrittura, i quali tutti esigono uguale
venerazione.
Insegnerà poi in quale modo
debba prestarsi il debito onore al nome divino, perché il popolo cristiano, le
cui labbra devono sciogliere inni ardenti di lode a Dio, non può ignorare
queste cose, utilissime, anzi necessario alla salvezza. Molteplici sono le
forme in cui può esprimersi la lode del nome divino, ma in quella che stiamo
per citare sembra compresa l'importanza di tutte le altre.
Lodiamo anzitutto il Signore
quando, al cospetto di tutti, lo riconosciamo fiduciosi come Dio e Signore
nostro, professando insieme e proclamando che Gesù Cristo è l'autore della
nostra salvezza. Lo stesso, quando attendiamo amorosamente alla conoscenza
della parola con cui si è espressa la volontà di Dio, meditandola assiduamente,
studiandola con cura, leggendo o ascoltando, secondo le capacità e le
incombenze di ciascuno di noi.
Parimenti veneriamo e
celebriamo il nome divino, quando celebriamo, per dovere o per sentimento di
pietà, le lodi divine e a Dio rendiamo grazie per ogni evento, prospero o
avverso che sia. Dice il profeta: "Benedici, o anima mia, il Signore e non
dimenticare le sue elargizioni" (Sal 102,2). Sono parecchi i salmi
davidici in cui sono soavissimamente cantate, con senso squisito, le lodi di
Dio ed è sommamente eloquente il fatto di Giobbe, esempio di pazienza, il
quale, piombato in disgrazie terribili, non ristette giammai dal lodare Dio con
animo invitto. Anche noi dunque, quando siamo afflitti dai dolori dei sensi e
dello spirito, o siamo straziati dalla sventura, rivolgiamo le nostre forze
alla lode alta di Dio, con la frase di Giobbe: "Sia benedetto il nome del
Signore "(Gb 1,21).
Non si loda meno il Signore,
però, invocandone fiduciosamente il soccorso affinché ci liberi dai mali, o
almeno ci infonda forza e costanza per tollerarli serenamente. Il Signore
stesso vuole che cosi facciamo: "Invocami nel dì della tribolazione; ti
libererò e tu mi renderai onore" (Sal 49,15). Implorazioni di questo
genere trovano mirabili esempi in copiosi passi biblici e specialmente nei
salmi 16, 43 e 118.
Infine noi onoriamo il nome
di Dio quando, a garanzia della parola data, lo invochiamo a testimone. Simile
maniera di onorarlo differisce notevolmente dalle precedenti. Quelle che
abbiamo enunciato, infatti, sono di loro natura così commendevoli che nulla v'è
per gli uomini di più beatificante e di più desiderabile del trascorrere in
esse notte e giorno. David esclama: "Canterò le lodi del Signore in ogni
istante; la sua lode fiorirà incessantemente sulle mie labbra" (Sal 33,2).
Invece il giuramento, per quanto buono in sé, non può essere lodevolmente usato
di frequente. La ragione della divergenza sta nel fatto che il giuramento fu
istituito solo per essere un rimedio all'umana fragilità, quale strumento di
prova per quanto asseriamo. Ora, come le medicine corporali vanno usate solo
quando è necessario e il loro uso frequente rappresenta un pericolo, così il
giuramento non può essere benefico se non in caso di grave e seria opportunità.
Se troppo spesso è ripetuto, lungi dal giovare, finisce con il recare sensibile
danno.
Opportunamente insegna san
Giovanni Crisostomo che il giuramento entrò nelle consuetudini umane molto
tardi, quando nel mondo, non più giovane, ma adulto, il male si era propagato
per lungo e per largo; tutto era fuori del proprio ordine, tutto era perturbato
e sconvolto in una vasta confusione e, per disgrazia più grande di ogni altra,
gli uomini tutti erano caduti in una ripugnante schiavitù dinanzi agli idoli.
Allora, poiché nessuno, in mezzo alla iniqua doppiezza universale, poteva
credere alla parola altrui, fu giocoforza invocarvi sopra la testimonianza di
Dio.
13 Definizione del giuramento
310 Nell'ambito di questa
parte del comandamento, il fine principale è di istruire i fedeli sul modo di
usare santamente il giuramento. Il parroco quindi insegnerà anzitutto che
giurare è chiamare Dio in testimonio, qualunque sia la formula adoperata per
farlo. Dire: "Dio mi è testimone" o: "Per Iddio" è la
stessa cosa. Si ha ancora giuramento quando, per ispirare fiducia, giuriamo nel
nome di certe cose create, quali, per esempio, i Vangeli sacri di Dio, la
Croce, le reliquie dei santi, il loro nome e simili. Ma poiché simili cose di
per sé non sono capaci di conferire autorità e forza a un giuramento (ciò può
farlo solo Dio, la cui divina maestà si riflette in esse) ne segue che chi
giura per il Vangelo giura per Dio stesso, la verità del quale è contenuta e
illustrata nei Vangeli. Lo stesso dicasi dei santi, che furono templi di Dio,
credettero nella verità evangelica, la rispettarono con ogni ossequio, la
propagarono fra i popoli.
Il giuramento è pure
implicito in alcune formule di esecrazione, come quella adoperata da san Paolo:
"Invoco Dio a testimone contro l'anima mia" (2 Cor 1,23). Chi
pronunzia la formula del giuramento in questo modo si sottopone al giudizio di
Dio, vendicatore della menzogna. Non neghiamo che alcune di queste formule
possono intendersi prive della forza di un giuramento; sarà utile però
applicare anche a esse le regole e le osservazioni formulate per il giuramento
propriamente detto.
Vi sono due generi di
giuramenti: con il primo, detto "assertorio", affermiamo con forza
religiosa una cosa passata o presente. Così dice l'Apostolo nella lettera ai
Galati: "Dio mi è testimone che io non mentisco" (Gai 1,20). Con il
secondo, detto "promissorio", che comprende anche le minacce e
riguarda il futuro, promettiamo e assicuriamo una cosa futura. A questa seconda
categoria appartiene, per esempio, la promessa solenne fatta da David alla
moglie Betsabea, nel nome di Dio, che suo figlio Salomone sarebbe stato l'erede
del trono e gli sarebbe succeduto (1 Re, l,28ss).
14 Condizioni del giuramento legittimo
311 All'essenza del
giuramento basta il chiamare Dio in testimone, ma perché esso sia giusto e
santo si richiedono parecchie altre condizioni che devono spiegarsi con cura.
Come attesta san Girolamo, le
ha brevemente enunciate Geremia, quando scrisse: "Giurerai, viva il
Signore, con verità, con ponderazione e con giustizia" (Ger 4,2). Con
queste poche parole egli ha riassunto gli elementi del perfetto giuramento:
verità, ponderazione del giudizio e giustizia.
Al primo posto nel giuramento
deve stare la verità, in quanto l'asserzione giurata deve essere vera e chi la
emette la sappia tale, non per una leggera o temeraria congettura, ma in forza
di saldissimi argomenti. Anche il giuramento promissorio esige la verità,
dovendo colui che promette avere il proposito saldo di mantenere a suo tempo la
promessa. L'uomo probo non si disporrà mai a promettere cosa contraria ai
santissimi precetti di Dio e quel che avrà promesso di fare con giuramento
giammai lo muterà, a meno che la situazione di fatto non sia così
sostanzialmente cambiata che mantenere la promessa significherebbe incorrere
nell'ira di Dio offeso. Anche David mostra quanto la verità sia necessaria nel
giuramento, con il definire giusto colui che giura in favore del prossimo e non
sa ingannare (Sal 14,4).
Segue il giudizio ponderato:
non si deve giurare avventatamente, ma a ragion veduta. Chi vuol giurare,
rifletta anzitutto se ce n'è la necessità e consideri la situazione in tutti i
suoi aspetti, per accertarsi che veramente esige il giuramento. Tenga conto del
tempo, del luogo e di tutte le altre circostanze. Non si faccia trascinare da
odio, da amore o da qualsiasi altro perturbamento spirituale, ma solo dalla
necessità delle cose. Se simile accurata indagine non sarà stata premessa, il
giuramento sarà senza dubbio temerario, com'è quello di coloro che per le cose
più futili, senza alcun serio motivo, quasi per una pessima consuetudine
contratta, giurano a ogni istante. Così fanno ogni giorno venditori e
compratori: quelli per vendere a più alto prezzo, questi per comprare a più
basso; gli uni e gli altri esaltano o deprezzano, giurando, la mercanzia.
Poiché i giovanetti mancano, a causa dell'età, di quell'acume che è necessario
alla ponderazione richiesta dal giuramento, papa san Cornelio stabili che non
si chieda mai il giuramento a ragazzi di età inferiore ai quattordici anni,
epoca della pubertà.
Infine la giustizia: questa è
necessaria soprattutto nei giuramenti promissori; perciò chi promette il
disonesto e l'ingiusto pecca giurando e accumula peccato su peccato, se
mantiene la promessa. Abbiamo di ciò un esempio nel Vangelo, dove si narra del
re Erode che, vincolato da una perfida promessa, donò in premio alla ballerina
la testa di san Giovanni Battista (Me 6,23). E può ricordarsi anche il
giuramento degli Ebrei che, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli,
giurarono di non mangiare finché non avessero ucciso san Paolo (23,12).
Chi rispetti tutte queste
clausole e circondi il giuramento con queste condizioni, come altrettanti
presidi, potrà con tranquilla coscienza giurare, come si può mostrare con molti
argomenti. L'immacolata e santa Legge di Dio non comanda forse: "Temerai
il Signore Dio tuo; a lui solo servirai; nel suo nome giurerai"? (Dt
6,13). E David ha lasciato scritto: "Saranno lodati tutti coloro che
giureranno nel suo nome" (Sal 62,12).
Del resto la Scrittura mostra
come gli stessi luminari della Chiesa, i santissimi Apostoli, ricorsero al
giuramento, come risulta pure dalle lettere di san Paolo. Si aggiunga che gli
stessi angeli giurano talora, poiché è detto nell’Apocalisse di san Giovanni Evangelista che un angelo giurò nel nome
di colui che vive nei secoli (10,6). Anzi giura Dio stesso, signore degli
angeli. Leggiamo infatti nel Vecchio Testamento che Dio ripetute volte
corrobora con giuramento le sue promesse ad Abramo (Gn 22,16; Es 33,1) e a
David, il quale esclama a proposito del giuramento di Dio: "Ha giurato il
Signore e non se ne pentirà: "Tu sei sacerdote in eterno, secondo l'ordine
di Melchisedec" " (Sal 109, 4).
La ragione stessa spiega
agevolmente come il giuramento sia lodevole se ne indaghiamo attentamente
l'origine e la finalità. Il giuramento infatti nasce dalla fede che gli uomini
hanno in Dio, autore di tutta la verità, incapace così di ingannarsi come di
ingannare, agli occhi del quale tutto appare senza veli (Eb 4,13), che provvede
con meravigliosa provvidenza e regge l'universo. Vivendo in tale fede, gli
uomini invocano Dio a testimone della verità, perché è cosa empia non credere a
lui. Il giuramento infine tende unicamente a comprovare la giustizia e
l'innocenza umana, a chiudere le liti e le controversie, come insegna
l'Apostolo nella sua lettera agli Ebrei (Eb 6,16).
A tale dottrina non possono
contrapporsi le parole del Salvatore in san Matteo: "Udiste che fu detto
agli antichi: "Non spergiurare, ma adempì con il Signore i tuoi
giuramenti". Io però vi dico di non giurare in modo alcuno, né per il
cielo che è trono di Dio, né per la terra, che è sgabello dei suoi piedi, né
per Gerusalemme, che è la città del gran Re. Non giurare per la tua testa,
perché non puoi far bianco o nero un solo capello. Ma sia il vostro parlare:
sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno" (Mt 5,33-37).
Non può infatti scorgersi in
queste parole una proibizione formale e generale del giuramento, dal momento
che abbiamo visto sopra come lo stesso Signore e gli Apostoli hanno giurato più
volte. Dobbiamo pensare piuttosto che Gesù Cristo volle biasimare la distorta
opinione dei giudei, che nel giuramento fosse da evitare soltanto la menzogna,
finendo con il giurare e con il chiedere l'altrui giuramento ogni momento, per
le cose più insignificanti. Il Salvatore deplora questo pessimo costume e
impone di astenersi dal giurare, finché non lo richieda una necessità.
In realtà il giuramento è
nato dalla fragilità umana e dal male; esso sta a indicare l'incostanza di chi
giura o la diffidenza di colui per cui giuriamo, deciso a non credere in altra
maniera. Però anche il bisogno può essere sufficiente motivo di scusa. La frase
del Salvatore: "Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no" mostra senza
dubbio che il giuramento è da lui vietato nelle conversazioni familiari e che non
dobbiamo essere inclinati a emetterlo ogni momento.
Intorno a ciò dovranno essere
caldamente ammoniti i fedeli, poiché, come mostrano le Scritture e gli
insegnamenti dei Padri, mali pressoché infiniti sgorgano dalla eccessiva
facilità a giurare. È scritto nel Siracide:
"II tuo labbro non contragga l'abitudine del giurare: essa porta molti al
precipizio". E poco dopo: "L'uomo che giura molto si riempirà di
cattiveria e i malanni assedieranno la sua casa" (23,9.12). Molte belle
considerazioni in materia si trovano nelle opere di san Basilio e di
sant'Agostino contro la menzogna.
Fin qui abbiamo parlato di
quel che è comandato; parliamo ora di quel che è vietato dal secondo
comandamento.
Come si pecca contro questo comandamento
312 Ci viene proibito di invocare
invano il nome di Dio. E’ quindi chiaro che pecca gravemente chi formula
giuramenti senza motivo, ma temerariamente. La gravità della colpa traspare
dalle stesse parole: "Non invocherai invano il nome del tuo Dio",
quasi volesse così addurre la ragione per cui simile colpa è tanto grave e
riprovevole, in quanto lede la maestà di colui che noi riconosciamo come nostro
Dio e Signore.
È così vietato anzitutto di
giurare il falso. Chi non rifugge dal peccato di porre sotto la garanzia di Dio
il falso, fa gravissima ingiuria a Dio, attribuendogli o l'ignoranza, per cui
suppone che non conosca una determinata verità, o una certa deformità di
affetti, per cui lo suppone disposto a corroborare con il proprio nome la
menzogna. Né giura falsamente solo colui che con giuramento afferma per vero
quanto sa che è falso, ma anche chi giurando sostiene una cosa che, vera in se,
è però da lui reputata falsa. Menzogna infatti è asserzione difforme
dall'intimo convincimento; perciò anche costui mente ed è spergiuro.
Parimenti è spergiuro chi
afferma con giuramento una cosa che ritiene vera, ma che è falsa, sempre nel
caso che non abbia adottato tutte le precauzioni per formarsi un concetto
chiaro e sicuro della medesima; in tal caso, sebbene fra parola e pensiero vi
sia corrispondenza, costui contravviene al precetto. Vi contravviene pure chi
promette con giuramento di far qualcosa e poi si propone di non farla, o
effettivamente non la fa. Tale valutazione si applica anche a coloro che fecero
a Dio un voto e non lo mantengono.
Si manca al precetto anche
quando manchi la giustizia, uno dei tre coefficienti del giuramento legittimo.
Chi giuri di commettere un peccato mortale, un omicidio, per esempio, pecca
contro il comandamento, per quanto parli seriamente e sinceramente e il suo
giuramento abbia quella nota di verità che già indicammo come indispensabile.
Vanno segnalati anche quei
tipi di giuramento che nascono da un sentimento di dispregio, come nel caso di
chi giuri di non voler obbedire ai consigli evangelici che esortano al celibato
e alla povertà. Sebbene nessuno sia obbligato a osservarli, chi però giuri con
solennità di non volerli seguire mostra di disprezzare e calpestare i consigli
divini.
Inoltre viola questo precetto
e pecca consapevolmente colui che giura il vero, sapendolo tale solo in base a
fragili e remote congetture. Infatti, sebbene la verità accompagni simile
giuramento, esso in qualche modo implica il falso, in quanto il giurare così
negligentemente espone al più grande pericolo di spergiuro. Infine giura
abusivamente chi giura per gli dei falsi e bugiardi. Quale cosa più difforme
dalla verità che l'invocare a testimoni divinità menzognere e illusorie, al
posto del vero Dio?
Vietando lo spergiuro, la
Scrittura dice: "Non contaminerai il nome del tuo Dio" (Lv 19,12). È
proibirà dunque ogni disistima di tutto ciò a cui, in virtù di questo
comandamento, dobbiamo ossequio e, fra l'altro, della parola di Dio, veneranda
agli occhi non solo delle persone pie, ma anche delle empie, come mostra nel
Libro dei Giudici il racconto che riguarda Eglon re dei Moabiti (3,12ss).
Orbene, gravissima ingiuria si arreca alla parola di Dio torcendo la Scrittura
dal suo retto significato all'asserzione di dottrine eretiche ed empie. Ci
ammonisce in proposito il principe degli Apostoli: " Vi sono nelle
Scritture frasi ardue che gli ignoranti e i superficiali fraintendono a loro
dannazione" (2 Pt 3.16 ). Parimenti
la Sacra Scrittura è contaminata quando le sue venerabili sentenze, da uomini
sconsigliati, sono tratte a significati profani, sconvenienti, favolosi,
sciocchi, magici, calunniosi e simili. Il sacro Concilio Tridentino vuole che
si avverrà che ciò non si può fare senza peccato.
Infine, come onorano Dio
coloro che ne implorano il soccorso nelle calamità, così gli negano il dovuto
onore coloro che non ne invocano l'aiuto. David li redarguisce: "Non
invocarono il Signore e tremarono di paura quando non v'era ragione di
temere" (Sal 13, 5).
Ma di ben più detestabile
scelleratezza si rendono rei coloro che osano, con labbra vergognosamente
impure, bestemmiare e maledire il nome santo di Dio, che tutte le creature
dovrebbero magnificare e benedire; oppure il nome dei santi che regnano con
Dio.
Questo peccato è così
mostruoso che la Scrittura talora, dovendo parlare della bestemmia, preferisce
parlare di benedizione (1 Re 21,13).
15 Pene per i trasgressori del precetto
313 Poiché l'orrore per la
punizione e il supplizio suole efficacemente comprimere l'inclinazione a
peccare, il parroco che vuole eccitare più vivamente l'animo dei fedeli e
stimolarlo al rispetto del comandamento ne spiegherà convenientemente la
seconda parte o appendice: "II Signore non riterrà innocente colui che
abbia invocato vanamente il nome del Signore stesso, suo Dio" (Es 20,7).
Insegni anzitutto che ragionevolmente sono state unite al precetto le minacce
che lumeggiano la gravità della colpa e la misericordia divina verso di noi.
Egli non si compiace della dannazione degli uomini e, per indurci a evitare la
sua ira punitrice, ci atterrisce con salutari minacce, affinché preferiamo
sperimentarlo benevolo, anziché irato. Insista dunque il pastore su questo
punto con ogni cura; faccia conoscere al popolo l'orrore della colpa, ne
insinui più veemente abominazione, affinché i fedeli siano più diligenti
nell'evitarla.
Voglia inoltre mostrare come
sia sviluppata nell'uomo la tendenza a commetterla, non essendo stato
sufficiente promulgare la Legge, poiché fu necessario aggiungerle delle
minacce. Non si può immaginare quanto tale considerazione sia proficua. Come
nulla è più pernicioso della spavalda sicurezza d'animo, così nulla è più
giovevole della consapevolezza della propria nullità. Infine spieghi come Dio
non abbia stabilito alcun determinato supplizio, ma semplicemente dichiarato
che chiunque si macchia di questo delitto non sfuggirà alla vendetta. Perciò
devono esserci di monito le nostre pene quotidiane, potendosi plausibilmente
congetturare che gli uomini sono colpiti da sventure perché non obbediscono a
questo precetto. E probabile che riflettendo a ciò se ne guarderanno più
premurosamente per l'avvenire. In conclusione, ripieni di santo timore, i
fedeli fuggano con ogni studio questo peccato. Se nel dì del giudizio ci sarà
chiesto conto di ogni parola oziosa (Mt 12,36), che cosa dire dei peccati più
gravi, che implicano una diretta offesa al nome divino?
Terzo comandamento
RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE
314 "Lavorerai per sei
giorni, compiendo tutti i tuoi doveri. Ma il settimo giorno è del Signore Dio
tuo; in quello, nulla farete tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua
serva, il tuo giumento, l'ospite che dimora in casa tua; infatti in sei giorni
il Signore fece il cielo, la terra e tutto ciò che è in essi e nel settimo
giorno si riposò. Per questo il Signore benedisse il sabato e lo santificò."
16 Oggetto del comandamento
Con questo comando della
Legge è giustamente e ordinatamente prescritto quel culto esterno che dobbiamo
a Dio. Si tratta in fondo di un corollario del precedente comandamento. Non
possiamo infatti astenerci dal prestare culto esterno e dall'offrire il nostro
ringraziamento a colui che veneriamo nell'anima e in cui riponiamo la nostra
fiducia e speranza; poiché le cure umane non permettono agevolmente agli uomini
di assolvere simile compito, è stato fissato un tempo in cui possano farlo
comodamente.
Trattandosi di comandamento
che arreca mirabili frutti, preme che il parroco ponga ogni studio nel
commentarlo. La prima parola della formula, "Ricordati", infiammerà
già di per sé il suo zelo. Se i fedeli devono ricordare il precetto, spetta al
pastore inculcarlo senza tregua nei loro cuori. Quanto poi convenga ai fedeli
rispettarlo, traspare dal fatto che, ciò facendo, saranno portati a rispettare
più facilmente i rimanenti obblighi della Legge. Infatti, tra le altre azioni
da compiere nei giorni festivi v'è quella di recarsi in chiesa ad ascoltare la
parola di Dio. Una volta istruiti nelle divine prescrizioni, i fedeli
custodiranno con tutto il cuore la Legge del Signore.
Per questo il rispetto del
sabato e il culto divino sono raccomandati spessissimo nella Scrittura,
nell'Esodo per esempio, nel Levitico,
nel Deuteronomio, in Isaia, in Geremia, in Ezechiele:
dovunque si riscontrano passi che inculcano il rispetto del giorno festivo.
Speciali esortazioni vanno rivolte a chi governa e ai magistrati affinché, per
quanto riguarda il mantenimento e l'incremento del culto divino, pongano il
loro potere a disposizione dei reggitori ecclesiastici e ordinino al popolo di
sottostare alle prescrizioni sacerdotali.
Nella spiegazione del
comandamento si deve aver cura che i fedeli sappiano in che cosa esso coincide
con gli altri e in che cosa ne differisce; così comprenderanno perché noi
rispettiamo e riteniamo per giorno sacro non più il sabato ma la domenica.
Una differenza intanto e
questa: gli altri comandamenti del Decalogo sono naturali e perpetui, ne
possono m nessun modo essere cambiati; sicché, per quanto la Legge di Mosè sia
stata abrogata, il popolo cristiano rispetta sempre i comandamenti contenuti
nelle due tavole, non in virtù della prescrizione mosaica, ma perché si tratta
di precetti rispondenti alla natura, la cui forza stessa ne impone agli uomini
il rispetto. Invece questo precetto del culto del sabato, per quanto riguarda
il giorno prescelto, non è circoscritto e fisso, ma mutabile: non si riferisce
ai costumi, ma ai riti; non è naturale, non avendoci istituito o comandato la
natura di prendere un dato giorno, anziché un altro, per dare a Dio culto
esterno; solamente dal tempo in cui il popolo d'Israele fu liberato dalla
servitù del faraone, esso rispettò il sabato.
Al momento in cui tutti i
riti ebraici e le cerimonie dovevano decadere, alla morte cioè di Cristo, anche
il sabato doveva essere cambiato. Infatti, essendo tali cerimonie pallide
immagini della luce. necessariamente sarebbero state rimosse all'avvento della
luce e della verità, che è Cristo Signore. Scriveva in proposito san Paolo ai
Galati, rimproverando i cultori del rito mosaico: "Voi osservate i giorni,
i mesi, le stagioni, gli anni: temo per voi che io mi sia affaticato invano a
vostro riguardo" (4,10). Nel medesimo senso si esprimeva con i Colossesi
(2,16). E questo valga per le differenze.
Coincide invece con gli altri
precetti non già nel rito e nelle cerimonie, ma in quanto implica qualcosa che
rientra nella morale e nel diritto naturale. Il culto e l'ossequio religioso a
Dio, formulati in questo comandamento, sgorgano infatti dal diritto di natura,
essendo proprio la natura che ci spinge a consacrare qualche ora al culto di
Dio. Non constatiamo infatti che tutti i popoli consacrano alcuni giorni alla
pubblica celebrazione di sacre cerimonie? L'uomo è tratto da natura a dedicare
un tempo determinato ad alcune funzioni elementari, quali il riposo del corpo,
il sonno e simili. Per la stessa forza naturale è spinto a concedere, oltre che
al corpo, un po' di tempo allo spirito, affinché si rinfranchi nel pensiero di
Dio. Che in una parte del tempo si venerino le cose divine e si tributi a Dio
il dovuto onore rientra quindi nell'insieme dei precetti riguardanti i costumi.
Perciò gli Apostoli stabilirono che fra i sette giorni il primo fosse
consacrato al culto divino e lo chiamarono giorno del Signore. Anche san
Giovanni nell'Apocalisse ricorda il "giorno del Signore" (1,10).
L'Apostolo comanda che si facciano collette ogni primo giorno della settimana
(1 Cor 16,2), che è la domenica, secondo la spiegazione del Crisostomo.
Evidentemente fin da allora il giorno domenicale era sacro.
17 Molteplici parti del comandamento
315 Affinché i fedeli
sappiano come debbono comportarsi in quel giorno e da quali azioni si debbano
astenere, non sarà male che il parroco spieghi minutamente il precetto, che può
dividersi praticamente in quattro parti.
Anzitutto indicherà
genericamente quel che prescrivono le parole: "Ricordati di santificare il
sabato". Opportunamente al primo posto è stata collocata l'espressione
"Ricordati", poiché il culto di questo giorno appartiene alla legge
cerimoniale. Sembrò saggio ammonire formalmente in proposito il popolo, dal
momento che la legge naturale, pur insegnando che in un dato tempo qualsiasi si
doveva venerare Dio con culto religioso, non prescriveva in quale giorno di
preferenza si dovesse fare.
In secondo luogo il parroco
mostri ai fedeli come la formula suggerisca il modo ragionevole con cui
dobbiamo lavorare durante la settimana, in maniera cioè da non perdere mai di
vista il giorno festivo. In questo, dobbiamo quasi render conto a Dio delle
nostre azioni e delle nostre opere; è necessario quindi che compiamo sempre
azioni tali da non meritare la condanna di Dio e da non lasciare nei nostri
spiriti, secondo il motto biblico, tracce di singhiozzi e di rimpianti (1 Sam
25,31).
Infine la formula ci insegna,
e dobbiamo ben rifletterci, che non mancheranno le occasioni per dimenticare il
precetto, trascinati dall'esempio di coloro che lo trascurano, assorbiti dagli
spettacoli e dai giochi che allontanano troppo spesso dal pio e religioso
rispetto del santo giorno.
Ma veniamo ormai a parlare
del significato del sabato. Sabato, vocabolo ebraico, vuol dire "cessazione";
quindi "sabatizzare" vale "cessare" e
"riposarsi". Il settimo giorno ricevette il nome di sabato, appunto
perché, compiuto l'universo cosmico, Dio ristette dall'opera già compiuta (Gn
2,3). Così il Signore chiama questo giorno nell'Esodo (20,8.11). Più tardi tale
nome fu conferito non più soltanto al settimo giorno, ma, a causa della sua
dignità, a tutta la settimana. Per questo il fariseo dice nel Vangelo di san
Luca: "Digiuno due volte nel sabato" (18,12). Questo per quanto
riguarda il significato del sabato.
La santificazione del sabato,
secondo le indicazioni bibliche, consiste nell'astensione da tutti i lavori e
affari materiali, come indicano apertamente le parole seguenti del precetto:
"Non lavorerai". Ma non è qui tutto; perché in tale ipotesi sarebbe
stato sufficiente dire nel Deuteronomio: "Osserva il sabato" (5,12),
mentre invece vi si aggiunge: "Per santificarlo". Dunque il giorno
del sabato è un giorno religioso, che va consacrato ad azioni divine o a
occupazioni sacre. Sicché lo rispetteremo integralmente se adempiremo gli atti
di religione verso Dio. E questo è propriamente il sabato, che Isaia chiama
"delizioso" (58,13), poiché i giorni festivi sono come le delizie del
Signore e degli uomini pii. Che se al rispetto religioso così intero e santo
del sabato aggiungeremo le opere di misericordia, allora, secondo la promessa
del medesimo profeta (58,8), ci meriteremo premi inestimabili.
Dunque il pieno valore del
comandamento esige che l'uomo ponga tutte le sue energie perché nei giorni
fissati, lontano dagli affari e dal lavoro materiale, possa attendere al pio
culto del Signore.
18 Misteri del giorno consacrato al Signore
316 Nella seconda parte del
comandamento è detto che, per ordine divino, il settimo giorno è consacrato al
culto di Dio. Sta scritto infatti: "Lavorerai per sei giorni e farai tutto
quello che devi, ma il settimo giorno è il sabato del Signore Dio tuo".
Tali parole vogliono significare che il sabato deve essere consacrato al
Signore con opere di religione e che questo settimo giorno simboleggia il
riposo del Signore. Fu consacrato a Dio perché non sarebbe stato bene
rilasciare all'arbitrio del popolo rozzo scegliersi la giornata, con il
pericolo di seguire le consuetudini sacre degli Egiziani.
Fra i sette giorni, fu
prescelto l'ultimo per il culto del Signore e la cosa è piena di mistero;
perciò Dio nell'Esodo (31,13) e in Ezechiele (20,12) chiama il sabato un
"segno": "Badate a rispettare il mio sabato, perché è un segno
pattuito fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché sappiate che io
sono il Signore che vi santifica". Vale a dire: esso fu il segno che
indicava agli uomini la necessità di dedicarsi a Dio, di mostrarsi santi ai
suoi occhi, osservando come a lui era consacrata anche una giornata speciale.
Infatti è santo il giorno in cui gli uomini devono in maniera particolare
coltivare la santità e la religione. Inoltre il sabato è come un segno e un
ricordo commemorativo dell'avvenuta formazione di questo mirabile universo. Di
più, fu un segno tramandato alla memoria degli Israeliti perché fossero indotti
a ricordare costantemente che l'aiuto di Dio li aveva affrancati dal durissimo
giogo del dominio egiziano. Dice infatti il Signore: "Ricordati di essere
stato schiavo in Egitto e che ti liberò di là il Signore Dio tuo con la forza
della sua mano e l'intervento del suo braccio. Per questo ti impose di
rispettare il sabato" (Dt 5,15).
Infine è il simbolo del
sabato spirituale e di quello celeste. Il sabato spirituale consiste in un
santo e mistico riposo e si celebra quando, sepolto in Cristo l'uomo vecchio
(Rm 6,4), si rinasce a vita nuova e si compiono fervidamente azioni confacenti
alla pietà cristiana. Allora coloro che erano una volta tenebre e ora invece
sono luce nel Signore, procederanno sui sentieri della bontà, della giustizia,
della verità, come figli della luce, astenendosi dal partecipare alle insane
opere delle tenebre (Ef 5,8).
Il sabato celeste poi,
secondo il commento di san Cirillo al passo apostolico "E lasciato un
altro sabato al popolo di Dio" (Eb 4,9), consiste in quella vita, nella
quale, vivendo con Cristo, godremo di tutti i beni, essendo estirpata ormai
ogni radice di peccato, secondo il detto: "Non vi saranno leoni, non vi
passeranno belve; ma ivi si aprirà una strada pura e santa" (Is 35, 8s). In
realtà lo spirito dei santi consegue nella visione di Dio tutti i beni. Si
esortino dunque i fedeli e si stimolino con le parole: "Affrettiamoci a
entrare in quel supremo riposo" (Eb 4,11).
Il popolo giudaico
rispettava, oltre il settimo giorno, anche altri giorni festivi stabiliti dalla
Legge, affinché fosse sempre viva la memoria degli insigni benefici ricevuti.
La Chiesa di Dio trasportò la
ricorrenza festiva del sabato alla domenica, perché in questo giorno, per la
prima volta, brillò la luce sul mondo e in esso, in virtù della risurrezione
del Redentore che aprì l'adito alla vita eterna, la nostra vita, affrancata
dalle tenebre, fu ricondotta nelle regioni della luce. Perciò gli Apostoli lo
chiamarono "giorno del Signore". Già nella Bibbia tale giorno appare
solenne, come quello in cui ebbe principio la creazione del mondo e in cui lo
Spirito Santo fu infuso negli Apostoli.
Agli inizi della Chiesa e nei
tempi susseguenti, gli Apostoli e i nostri santi Padri istituirono altri giorni
festivi, affinché alimentassimo sempre la memoria santa dei divini benefici.
Fra gli altri son ritenuti più solenni i giorni che commemorano i misteri della
nostra Redenzione, poi quelli consacrati alla santissima Vergine e Madre;
infine quelli dedicati agli Apostoli, ai martiri, ai santi che regnano con
Cristo. Nella vittoria di questi santi rifulge ed è esaltata la potente
benevolenza di Dio; a essi viene tributato onore, anche perché il popolo sia
stimolato a imitarne le virtù.
Al rispetto del comandamento
induce pure efficacemente la parte della formula che dice: "Lavorerai per
sei giorni; il settimo giorno è il sabato del Signore". Il parroco perciò
deve copiosamente spiegarla. Da quelle parole è lecito desumere che i fedeli
devono essere esortati a non trascorrere la loro esistenza nell'ozio, ma al
contrario, memori della raccomandazione apostolica, ciascuno compia il suo
lavoro con le proprie mani (1 Ts 4,11; Ef 4,2S). Con tale precetto, inoltre, il
Signore comanda di non rimandare alla domenica nulla di ciò che dobbiamo compiere
negli altri giorni, perché lo spirito non sia allontanato nel giorno festivo
dalle occupazioni sante.
19 Quale lavoro è vietato nei giorni festivi
317 II parroco illustrerà poi
la terza parte del comandamento, che spiega in quale modo si debba rispettare
il sabato e da quali opere ci dobbiamo astenere. Dice il Signore: "In quel
giorno non farete nulla: ne tu, ne tuo figlio, ne tua figlia, il tuo servo o la
tua serva, il tuo giumento e il tuo ospite che è in casa tua". Con queste
parole siamo avvertiti di evitare assolutamente quanto può ostacolare
l'esercizio del culto divino. Si intuisce infatti che è vietato ogni genere di
lavoro servile, non davvero perché questo sia di natura sua disonorevole e
malvagio, ma solo perché ci allontana da quel culto divino che rappresenta lo
scopo del precetto. A quanta maggior ragione i fedeli dovranno evitare in quel
giorno i peccati, che non solamente distraggono lo spirito dall'esercizio delle
cose divine, ma ci separano radicalmente dall'amore di Dio!
Non sono però vietate le
azioni che appartengono al culto divino, anche se siano servili, quali
apparecchiare l'altare, adornare il tempio per il di festivo e simili. Perciò
il Signore ha detto che i sacerdoti possono nel tempio violare il sabato ed
essere senza colpa (Mt 12,5). Neppure si devono ritenere vietate dalla Legge
quelle azioni la cui sospensione nel giorno festivo può determinare gravi
danni. Anche i sacri Canoni lo permettono. Il Signore nel Vangelo dichiarò che
molte altre azioni possono compiersi nei giorni di festa e il parroco ne
troverà agevolmente l'indicazione in san Matteo e in san Giovanni.
A ogni modo, perché nulla
fosse omesso di tutto ciò che può impedire il rispetto del sabato, fu
menzionato persino il giumento. Anche da questi animali sono impediti gli
uomini dall'attendere alla celebrazione del sabato, poiché se in questo giorno
si fa lavorare la bestia da soma, lavorerà anche l'uomo che deve guidarla. Essa
non può da sola compiere un lavoro; soltanto aiuta l'uomo nel suo intento. E
poiché di festa nessun lavoro è consentito, neppure alla bestia è lecito
lavorare, essendo essa cooperatrice docile dell'uomo. Di modo che la Legge
finisce con l'avere pure un'altra portata; poiché se Dio vuole che l'uomo
risparmi gli animali nel lavoro, tanto più vuole che si astenga dall'essere
disumano con coloro che hanno posto la loro capacità al suo servizio.
Il parroco infine non
dimentichi di insegnare con cura in quali opere debbano invece trascorrere i
cristiani i giorni festivi. Andranno in chiesa per assistere con devota
attenzione al sacrificio della santa Messa, partecipare di frequente ai divini
sacramenti della Chiesa, istituiti per la nostra salute e per la cura delle
nostre ferite spirituali. Nulla può fare di meglio il cristiano che confessare
spesso i suoi peccati ai sacerdoti. A tal fine il parroco esorterà di frequente
il popolo, traendo copia di argomenti da quanto è stato detto e stabilito a
proposito del sacramento della Penitenza. Ne si limiterà a stimolare il popolo
ad accostarsi a questo sacramento, ma assiduamente lo spingerà ad avvicinarsi
spesso al santo sacramento dell'Eucaristia.
I fedeli inoltre devono
ascoltare con religiosa attenzione la predica. Che cosa di più intollerabile e
di più indegno che il disprezzo, o l'indifferenza verso la parola di Gesù
Cristo? Infine i fedeli devono esercitarsi nelle preci e nelle lodi divine,
ponendo tutte le loro cure nell'apprendere le regole della vita cristiana.
Metteranno in pratica premurosamente quei doveri che rientrano nella sfera
della pietà, quali l'elemosina ai poveri e ai bisognosi, la visita agli
infermi, la consolazione e il conforto agli addolorati. Come dice san Giacomo:
"La religione pura e immacolata agli occhi di Dio Padre sta qui: visitare
gli orfani e confortare le vedove nei loro affanni" (1,27).
Da quanto abbiamo detto sarà
facile desumere quali siano le trasgressioni che si commettono contro questo
comandamento.
20 Ragioni del comandamento
318 II parroco abbia sempre
presenti passi autorevoli, da cui attingere argomenti capaci di indurre il
popolo a obbedire scrupolosamente al precetto.
Il mezzo più efficace però è
che il gregge dei fedeli comprenda bene la giustizia e la ragionevolezza
dell'obbligo di dedicare alcuni giorni all'esclusivo culto di Dio, al
riconoscimento e alla religiosa venerazione di nostro Signore, da cui ricevemmo
incommensurabili e innumerevoli benefici. Se pure ci avesse comandato di
compiere ogni giorno atti di culto religioso verso di lui, non dovremmo
alacremente obbedire al suo cenno, in virtù dei suoi infiniti benefici? Invece
ha voluto pochi giorni per sé. Potremo dunque essere negligenti nell'assolvere
sì modesto compito, al quale non possiamo sottrarci senza gravissima colpa?
Mostri poi il parroco
l'intimo valore del comandamento: chi l'osserva coscienziosamente non sembra
costituito al cospetto di Dio, in colloquio con lui? In realtà rivolgendo
preghiere a Dio ne contempliamo la maestà, parliamo con lui; ascoltando i
predicatori, udiamo la voce di Dio, che arriva per loro mezzo alle nostre
orecchie, quando trattano piamente delle cose divine; nel sacrificio
dell'altare, poi, adoriamo presente nostro Signore Gesù Cristo.
Di tutti questi beni godono
coloro che ubbidiscono al comandamento. Mentre chi lo trascura è ribelle a Dio
e alla Chiesa, sordo al divino comando, realmente nemico di Dio e delle sue
sante leggi. Basta riflettere al fatto che tale divino comandamento può essere
rispettato senza alcun sacrificio. Dio non ha imposto ardue fatiche da
affrontarsi in suo onore: ha voluto semplicemente che trascorressimo i suoi
giorni festivi liberi da cure terrene. Non è dunque indizio di sfrontata
temerità il rifiuto di obbedienza?
Ricordiamo i terrificanti
supplizi a cui Dio sottopose i violatori del comando, quali sono narrati nel
libro dei Numeri (15,32). Per non incappare in questa grave offesa di Dio, sarà
bene ripetere mentalmente e molto spesso il monito "ricordati" e
tenere costantemente dinanzi agli occhi gli insigni vantaggi, che abbiamo
mostrato scaturire dal rispetto dei giorni festivi e tutte quelle argomentazioni,
che il pastore zelante saprà a ogni occasione prospettare e illustrare.
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