Articolo 10
LA REMISSIONE DEI PECCATI
Significato dell'articolo
121 Nessuno che veda questo
articolo sulla remissione dei peccati annoverato tra gli altri articoli di fede
può dubitare che esso contenga un mistero divino e per giunta necessarissimo a
conseguire la salvezza. Come infatti abbiamo già spiegato, senza la ferma fede
di tutto quello che il Simbolo ci propone di credere, non si apre la porta
della misericordia di Cristo. Se fosse necessario confermare con qualche
testimonianza ciò che deve esser noto a tutti, basterà ricordare quanto attestò
ai discepoli il Salvatore poco prima dell'ascensione, quando apri loro la mente
a intendere le Scritture e disse che Cristo doveva patire e il terzo giorno
risorgere dai morti e che sarebbe stata predicata nel nome di lui la penitenza
per la remissione dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme (Lc
24,46.47). I parroci, riflettendo bene a queste parole, facilmente intenderanno
che, se è necessario esporre ai fedeli le altre verità della religione, è
necessarissimo, per obbligo loro fatto da Dio, spiegare con diligenza il
presente articolo.
1 Il potere di rimettere i peccati nella Chiesa
122 Dovere del parroco su
questo punto è di insegnare che nella Chiesa cattolica si trova non solo la
remissione dei peccati, di cui Isaia aveva predetto: "II popolo che abita
[in Sion] riceverà il perdono della sua iniquità" (Is 33,24), ma anche la
potestà di rimettere i peccati. Per essa, ove i sacerdoti ne facciano uso
secondo le leggi prescritte da Gesù Cristo nostro Signore, si deve credere che
i peccati vengono veramente rimessi e perdonati.
Questo perdono ci viene
donato così abbondantemente, professando per la prima volta la fede, con
l'acqua del Battesimo, che non vi rimane più né colpa da cancellare (sia quella
contratta per origine, sia quella commessa per propria opera o omissione), né
pena da scontare. Ma la grazia del Battesimo non libera da ogni infermità della
natura; che anzi non si trova quasi nessuno che nella lotta contro i moti della
concupiscenza, perenne incitatrice al peccato, resista con tanta energia e
difenda con tanta vigilanza la sua integrità da evitare ogni ferita.
Essendo pertanto necessario
che nella Chiesa vi fosse la potestà di rimettere i peccati anche per una via
diversa dal sacramento del Battesimo, a essa furono consegnate le chiavi del
regno dei cieli, in virtù delle quali fossero perdonati a qualsiasi penitente i
peccati commessi anche fino all'ultimo giorno della vita.
La Scrittura ne contiene
chiarissima testimonianza in san Matteo, dove il Signore così parla a san
Pietro: "Darò a te le chiavi del regno dei cieli; qualunque cosa avrai
legato sulla terra sarà legata anche nei cieli e qualunque cosa avrai sciolta
sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli" (Mt 16,19). E altrove:
"Quanto legherete sulla terra, sarà legato nel cielo e quanto scioglierete
sulla terra, sarà sciolto nel cielo" (ibid. 18,18). San Giovanni attesta
che il Signore, dopo aver alitato sugli Apostoli, disse: "Ricevete lo
Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi li
riterrete saranno ritenuti" (Gv 20,23).
2 Nessun peccato è irremissibile nella Chiesa
123 Questa potestà della
Chiesa non è ristretta a certe specie di peccati e non si può ammettere o
pensare delitto così enorme che la Chiesa non abbia potestà di rimetterlo, come
non c'è uomo così infame e scellerato che, qualora si penta davvero dei suoi
misfatti, non debba avere speranza certa di perdono. E nemmeno tale potestà è
circoscritta a un dato tempo. A qualunque ora il peccatore vorrà tornare alla
salvezza, non dovrà essere respinto, come ha insegnato il nostro Salvatore
quando rispose al principe degli Apostoli, che lo interrogava su quante volte
(sette forse?) si dovesse perdonare ai peccatori: "Non sette, ma settanta
volte sette" (Mt 18,22).
3 A chi è riservata la potestà di rimettere i peccati
124 Se consideriamo i
ministri di questo potere, lo vedremo restringersi, perché il Signore non lo
concesse a tutti, ma soltanto ai vescovi e ai sacerdoti. Lo stesso si dica sul
modo di esercitarlo, giacché solo mediante i sacramenti e osservandone la forma
si possono rimettere i peccati. Non è stato dato alla Chiesa il diritto di
sciogliere dai peccati in altra maniera. Ne segue che i sacerdoti e i
sacramenti servono come strumenti per perdonare i peccati: sono strumenti con i
quali Cristo nostro Signore, autore e donatore della salute, opera in noi la
remissione dei peccati e la giustizia.
4 La remissione dei peccati avviene solo per autorità divina
125 Affinché i fedeli meglio
apprezzino questo dono celeste, elargito alla Chiesa per la singolare misericordia
di Dio verso di noi, e lo usino con più ardente slancio di pietà, curi il
parroco di dimostrare la dignità e l'ampiezza di questa grazia, che si rileva
soprattutto esponendo con diligenza quanto grande sia la virtù di rimettere i
peccati e fare gli uomini da ingiusti giusti. E noto che ciò avviene per
l'infinita e immensa potenza di Dio; quella medesima che crediamo necessaria
per risuscitare dai morti e creare il mondo. E se, come vuole sant'Agostino (In
evang. loh., 72, 3), deve considerarsi maggiore opera render giusto un uomo che
creare dal nulla il ciclo e la terra, essendo la creazione opera solo di
infinita virtù, ne segue a maggior ragione che la remissione dei peccati sia da
attribuire alla potenza infinita.
Verissime sono pertanto le parole
degli antichi Padri, con cui professano che solo Dio perdona agli uomini i
peccati, né si può riferire ad altri che alla sua somma bontà e potenza
un'opera così mirabile. "Io sono" dice il Signore stesso per bocca
del profeta, "quegli che cancella le tue iniquità" (Is 43,25). Come,
dunque, nessuno può rimettere il debito, se non il creditore, così essendo noi
obbligati a Dio per i nostri peccati – e perciò preghiamo ogni giorno:
"rimetti a noi i nostri debiti" (Mt 6,12) - è evidente che nessuno,
tranne lui, può perdonare i nostri peccati.
Questo dono mirabile e divino
non fu concesso a nessuna creatura umana prima che Dio si facesse uomo. Primo
di tutti, Gesù Cristo salvatore nostro, come uomo, essendo ugualmente vero Dio,
ricevette questo dono dal Padre celeste: "Affinché sappiate" disse
"che il Figlio dell'uomo ha potere sulla terra di rimettere i peccati,
levati su" disse al paralitico "piglia il tuo letto e vattene a
casa" (Mt 9,6; Mc 2,9).
Fattosi uomo per elargire
agli uomini il perdono dei peccati, il Redentore, prima di salire al cielo e
sedervi in perpetuo alla destra del Padre, concesse questa potestà ai vescovi e
ai sacerdoti nella Chiesa. Non dimentichiamo però, come abbiamo già detto, che
Cristo perdona i peccati di propria autorità, mentre i sacerdoti solo in quanto
sono suoi ministri. Perciò, se è vero che noi dobbiamo ammirare e considerare
profondamente le cose operate dalla Potenza infinita, è chiaro che dovremo
ammirare questo preziosissimo dono che, per benignità di Cristo, è stato elargito
alla Chiesa.
5 Benignità di Dio nel modo di rimettere i peccati
126 Ma il modo stesso che
Dio, Padre clementissimo, ha stabilito per cancellare i peccati del mondo, deve
efficacemente eccitare l'animo dei fedeli a contemplare la grandezza di questo
beneficio. Egli infatti volle che i nostri peccati venissero espiati con il
sangue del suo Figlio unigenito, affinché questi pagasse la pena da noi
meritata per i nostri peccati ed egli, giusto, fosse condannato per i
peccatori, innocente, subisse una acerbissima morte per i colpevoli. Quante
volte perciò ricorderemo che noi non fummo già riscattati con vile moneta, ma
con il prezioso sangue di Cristo, agnello incontaminato e senza macchia (1 Pt
1,18.19), ci sarà facile dedurre che nulla di più salutare ci poteva essere
concesso da Dio di questa facoltà di rimettere i peccati, dono che mostra tutta
la misteriosa provvidenza di Dio e il suo immenso amore per noi.
E’ altresì necessario che
ciascuno ritragga da questa meditazione il maggior frutto possibile, poiché chi
offende Dio con il peccato mortale perde i meriti che gli venivano dalla
passione e morte di Cristo; così gli è negato l'accesso a quel paradiso che il
Redentore gli aveva aperto a prezzo del suo preziosissimo sangue. Perciò ogni
volta che pensiamo a questo, non possiamo non pensare seriamente alla profonda
miseria nostra.
Ma se consideriamo quale
ammirabile potere fu da Dio concesso alla sua Chiesa e se, fermi in questo
articolo di fede, crediamo che a ognuno è dato, con l'aiuto divino, di
ritornare al primitivo stato di grazia e dignità, allora con il cuore pieno di
esultanza ci sentiamo spinti a rivolgere a Dio le più vive grazie. Se quando
siamo gravemente malati, ci sembrano buoni e gradevoli perfino i tarmaci che la
scienza medica ci somministra, quanto più soavi dovranno essere per noi quei
rimedi che la, sapienza di Dio istituì a cura delle anime e quindi a
restaurazione della vita? Soprattutto perché portano con sé non già una dubbia
speranza di salvezza, come le medicine che si prendono per il corpo, ma una
sicura salvezza a coloro che bramano di essere sanati.
6 Con quanto impegno deve essere accolto il beneficio del perdono
127 I fedeli, dopo aver
conosciuto la preziosità di così insigne beneficio, saranno esortati a
sforzarsi di usarne religiosamente. Poiché è impossibile evitare che chi
rifiuta uno strumento utile, anzi necessario, non ne risulti suo spregiatore.
Tanto più che il Signore affidò alla Chiesa questa potestà di rimettere i
peccati, appunto perché tutti facessero ricorso al salutifero rimedio. Come
infatti senza il Battesimo nessuno può riacquistare l'innocenza, così chiunque
voglia ricuperare la grazia del Battesimo, perduta con colpe mortali, dovrà
ricorrere a un altro genere di espiazione e precisamente al sacramento della Penitenza.
Però si devono ammonire i
fedeli perché, essendo stata prospettata una possibilità di perdono così ampia
da non essere circoscritta da alcun limite di tempo, non si sentano più
proclivi al peccato o più pigri alla resipiscenza. Nel primo caso, evidentemente
irrispettosi e sprezzanti verso tale divina potestà, sarebbero indegni della
misericordia di Dio; nel secondo, dovrebbero vivamente paventare che, colti
dalla morte, non si trovino ad avere inutilmente creduto in un perdono dei
peccati, che il continuo procrastinare ha fatto loro perdere per sempre.
Articolo 11
LA RISURREZIONE DELLA CARNE
Significato dell'articolo
128 Che questo articolo abbia
molto valore per rafforzare la verità della nostra fede è ben chiaro dal fatto
che è non solo proposto ai fedeli dalle Sacre Scritture perché lo credano, ma
viene anche confermato con molti argomenti. Questo raramente accade per gli
altri articoli del Simbolo; si può quindi comprendere come su di esso poggi la
speranza della nostra salvezza, come su solidissimo fondamento. Infatti,
argomenta l'Apostolo, "Se non vi è la risurrezione dei morti, neppure
Cristo è risorto e se Cristo non è risorto, è inutile la nostra predicazione,
come inutile è la vostra fede" (1 Cor 15,14).
Nello spiegarlo dunque il
parroco non porrà minore impegno di quanto si affaticarono molti empi nel
distruggerlo. Sarà dimostrato fra poco come dalla sua conoscenza ridondino a
vantaggio dei fedeli grandi e segnalate utilità.
7 Perché si dice: "la risurrezione della carne"
129 Si dovrà osservare anzitutto che la risurrezione
degli uomini in questo articolo è detta "risurrezione della carne".
Ciò non è stato fatto senza ragione; poiché gli Apostoli vollero insegnare così
una verità che è necessario ammettere: l'immortalità dell'anima. E, perché
nessuno credesse che l'anima muore con il corpo e fossero poi entrambi
richiamati alla vita, mentre da moltissimi luoghi delle Sacre Scritture l'anima
risulta certamente immortale, nell'articolo si fa menzione solamente della
risurrezione della carne. E sebbene spesso, anche nelle Sacre Scritture, la
parola carne significhi tutto l'uomo, come per esempio in Isaia: "Ogni
carne è come fieno" (40,6) e in san Giovanni: "II Verbo si fece
carne" (1,14), tuttavia in questo luogo essa significa il corpo, per farci
comprendere che delle due parti, anima e corpo, di cui è composto l'uomo, la
seconda sola, cioè il corpo, si corrompe e ritorna nella polvere della terra,
dalla quale fu tratto, mentre l'anima rimane incorrotta. Ma poiché nessuno è
richiamato alla vita, se prima non sia morto, dell'anima non si può dire
propriamente che risorge.
Si fa menzione della carne
anche per confutare l'eresia propagata da Imeneo e Fileto (2 Tm 2,17), mentre
ancora viveva l'Apostolo. Costoro asserivano che la risurrezione menzionata
nelle Sacre Scritture non è la corporea, ma la spirituale, per la quale si
risorge dalla morte del peccato alla vita della grazia. Con le parole
dell'articolo evidentemente si esclude quell'errore e si conferma la
risurrezione del corpo.
8 La risurrezione della carne si deve illustrare con le Scritture
130 Sarà cura del parroco
illustrare questa verità con esempi tolti dal Vecchio e dal Nuovo Testamento e
da tutta la storia ecclesiastica. Vi furono infatti dei richiamati a vita da
Elia (1 Re 17,22) e da Eliseo (2 Re 4,34) nell'Antico Testamento; oltre quelli
che risuscitò da morte nostro Signore Gesù Cristo (Mt 9,25), alcuni furono
risuscitati dai santi Apostoli (At 9,40) e da altri moltissimi. Ora queste
risurrezioni confermano l'insegnamento dell'articolo. Come infatti crediamo che
molti furono risuscitati da morte, così deve credersi che tutti saremo
richiamati alla vita. Anzi il miglior frutto che dobbiamo ricavare da questi
miracoli è appunto di credere con la fede più grande questo articolo.
Sono molti i testi di cui i
parroci che posseggano una conoscenza pur mediocre delle Sacre Scritture
potranno servirsi. 1 più notevoli sono nel Vecchio Testamento e si possono
leggere: in Giobbe, dove dice che egli, nella sua carne, vedrà il suo Dio
(19,26); in Daniele, dove parla di quelli che dormono nella polvere della
terra, per svegliarsi, altri alla vita eterna, altri all'eterno obbrobrio
(12,2). Nel Nuovo Testamento poi abbiamo quel che san Matteo riferisce circa la
disputa che ebbe il Signore con i Sadducei (Mt 22,23) e quello che narrano gli
Evangelisti intorno all'ultimo giudizio (Mt 25,31). Si aggiunga anche quel che
espone con tanta acutezza l'Apostolo, scrivendo ai fedeli di Corinto e di
Tessalonica (1 Cor 15,12; 1 Ts 4,13).
9 Utilità degli esempi
131 Ma sebbene questa verità
sia certissima per fede, gioverà molto mostrare, con esempi e con ragionamenti,
che quanto la fede propone di credere, non è contrario alla natura e alla
ragione umana. Difatti l'Apostolo così risponde a chi domandi come possano
risorgere i morti: "O sciocco, quel che tu stesso semini, non nasce se
prima non muore. E seminandolo, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice
chicco, per esempio di grano o di altro genere. Dio poi gli da il corpo come
vuole". E poco dopo dice: "Si semina nella corruzione, risorgerà
nella incorruzione" (1 Cor 15,36.38.42). A questa similitudine san
Gregorio mostra che se ne possono aggiungere molte altre. "La luce"
egli scrisse "ogni giorno sparisce dai nostri occhi come se morisse e
ritorna di nuovo come se risorgesse; gli alberi perdono il verde e di nuovo lo
riacquistano, come se risorgessero; i semi muoiono imputridendo e risorgono di
nuovo germinando" (Gregorio, Moralia, 14, 55).
10 Si deve dimostrare con argomenti
132 Anche le ragioni che
vengono addotte dagli scrittori ecclesiastici possono essere adatte a provare
questa verità. In primo luogo, essendo l'anima immortale e avendo una
propensione naturale, come parte dell'uomo, al corpo umano, si dovrà ritenere
che non sia naturale per essa restare sempre divisa dal corpo. E poiché ciò che
è contrario alla natura ed è violento non può durare a lungo, sembra
ragionevole che si ricongiunga al corpo; ne segue che vi sarà la risurrezione
dei corpi. Di questo argomento il nostro Salvatore si servì quando, disputando
con i Sadducei, dall'immortalità delle anime dedusse la risurrezione dei corpi
(Mt 22,32).
Secondo, Dio, che è
sommamente giusto, ha apparecchiato supplizi per i cattivi e premi per i buoni.
Moltissimi però muoiono senza aver scontato la pena e più ancora senza aver
ricevuto il premio delle loro virtù. Dunque le anime dovranno ricongiungersi
necessariamente ai loro corpi, perché questi, di cui gli uomini si servono per
peccare, ricevano il castigo o il premio delle loro azioni. Questo argomento è
stato trattato con molta cura da san Giovanni Crisostomo in un'omelia al popolo
di Antiochia (Hom. Ad pop. Ant., 1, 9).
Ecco perché l'Apostolo,
parlando della risurrezione, dice: "Se per questa vita sola speriamo in
Cristo, siamo i più miserabili degli uomini" (1 Cor 15,19). Tali parole
nessuno vorrà riferirle alla miseria dell'anima, che è immortale e, se anche i
corpi non risorgessero, pure nella vita futura potrebbe godere la beatitudine,
ma bisogna intenderle come riferite a tutto l'uomo. Se infatti al corpo non
fossero dati i premi condegni per le sue pene, ne seguirebbe che coloro i
quali, come gli Apostoli, hanno sopportato nella vita tante disgrazie e
travagli sarebbero i più miseri dei mortali. La stessa cosa, ma molto più
chiaramente, è insegnata da san Paolo con queste parole ai Tessalonicesi:
"Noi stessi ci gloriarne di voi nelle chiese di Dio, della vostra pazienza
e fede in mezzo a tutte le persecuzioni e tribolazioni da voi sopportate:
indizio del giusto giudizio di Dio, perché siate ritenuti degni del regno di
Dio, per cui anche patite. E giusto che Dio renda tribolazioni a coloro che vi
affliggono; e a voi tribolati dia riposo con noi, all'apparire che farà dal
cielo il Signore Gesù coi potenti suoi angeli, in un incendio di fiamme, per
fare vendetta di coloro che non han riconosciuto Dio e non ubbidiscono al
vangelo del nostro Signore Gesù Cristo" (2 Ts 1,4-8).
Inoltre gli uomini,
fintantoché l'anima è separata dal corpo, non possono raggiungere la felicità
piena, ricolma di ogni bene. Infatti, come ogni parte separata dal tutto è
imperfetta, così è anche l'anima che non sia unita al corpo. Perciò ne segue
che è necessaria la risurrezione dei corpi perché nulla manchi alla completa
felicità dell'anima.
Con queste ragioni e con
altre simili il parroco potrà istruire i fedeli su questo articolo.
11 Tutti gli uomini risorgeranno
133 Sarà inoltre necessario
spiegare, secondo la dottrina dell'Apostolo, quali debbano essere i risuscitati
alla vita; poiché, scrivendo ai Corinzi, egli dice: "Come in Adamo tutti
muoiono, così in Cristo tutti saranno vivificati" (1 Cor 15,22).
Prescindendo dunque da qualsiasi differenza di buoni e cattivi, tutti, pur non
avendo la stessa sorte, risorgeranno da morte: quanti fecero il bene, in
risurrezione di vita; quanti fecero il male, in risurrezione di condanna (Gv
5,29).
Quando diciamo tutti vogliamo
indicare tanto quelli che al momento del giudizio saranno già morti, quanto
quelli che moriranno. San Girolamo infatti scrive che la Chiesa ammette
l'opinione che tutti dovranno morire, nessuno eccettuato, e che questa è più
vicina al vero (Epist. ad Minerv., 119); la stessa opinione è anche quella di
sant'Agostino (De civit. Dei, 20, 20). Né a essa contraddice quel che
l'Apostolo scrive ai Tessalonicesi: "Quelli che morirono in Cristo,
risorgeranno i primi; in seguito, noi che viviamo, che siamo rimasti, verremo
rapiti nell'aria, insieme con quelli, incontro a Cristo" (1 Ts 4,16).
Sant'Ambrogio infatti spiegando questo passo, dice: "Nello stesso
rapimento verrà prima la morte come in un sopore, di modo che l'anima uscita
ritorna in un attimo. Nell'essere sollevati moriranno, affinché giungendo
presso il Signore ricevano la vita per la presenza del Signore; perché con il
Signore non possono esserci morti" (Comm. in 1 epist. ad Thes., 4, 16).
Tale opinione viene approvata dall'autorità di sant'Agostino nella Città di Dio
(ibid.).
12 Risorgerà il corpo di ciascuno
134 Ma poiché è molto
importante la certezza che sia lo stesso e identico corpo di ciascuno di noi,
quantunque corrotto e ridotto in polvere, a risuscitare alla vita, il parroco
deve accuratamente spiegarlo. Tale è il pensiero dell'Apostolo quando dice:
"Quest'essere corruttibile deve rivestirsi di incorruzione" (1 Cor
15,53), volendo manifestamente indicare con il termine questo, il proprio
corpo. Anche Giobbe profetizzò di esso in modo chiarissimo dicendo: "E
nella carne mia vedrò il mio Dio; lo vedrò io stesso, i miei occhi lo mireranno
e non un altro" (19,26). Ciò risulta dalla stessa definizione della
risurrezione; infatti essa, secondo il Damasceno, è un richiamo a quello stato
dal quale sei caduto (Exp. fidei, 4, 27).
Finalmente, se consideriamo
la ragione già sopra indicata per cui avverrà la risurrezione, non ci può
essere alcun dubbio in proposito. Dicemmo infatti che i corpi saranno
resuscitati, affinchè abbia ciascuno quel che è dovuto al suo corpo, secondo
quel che operò, sia di bene, sia di male (2 Cor 5,10). L'uomo deve dunque
necessariamente risorgere nello stesso corpo, con cui servì a Dio o al demonio,
per ricevere con il medesimo corpo le corone del trionfo e i premi o per
soffrire le pene e i supplizi.
13 Il corpo risorgerà integro
135 E non risorgerà solo il
corpo; ma anche tutto ciò che è parte della sua vera natura, del decoro e
ornamento dell'uomo, deve ritornare a lui. Abbiamo uno splendido argomento di
sant'Agostino: "Non vi sarà allora nei corpi ombra di difetto; se alcuni
furono troppo obesi e grassi per la pinguedine, non prenderanno tutta la massa
del corpo; ma quel che supererà la misura normale, sarà considerato superfluo.
Al contrario, tutto quello che nel corpo sarà consumato da malattia o
vecchiaia, sarà ridonato da Cristo per virtù divina, come a coloro che furono
gracili per magrezza Cristo riparerà non solo il corpo, ma tutto quello che fu
tolto dalla miseria di questa vita" (De civit. Dei, 22,19). Così in un
altro luogo: "Non riprenderà l'uomo i capelli che aveva, ma quelli che gli
stavano bene, secondo il passo: "Tutti i capelli del vostro capo sono
numerati"; essi devono ripararsi secondo la divina sapienza" (ibid.).
Anzitutto ci saranno ridonate tutte le membra che fanno parte della completa
natura umana. Chi dalla nascita sia stato privo degli occhi o li abbia perduti
per qualche malattia, gli zoppi, gli storpi e i minorati risorgeranno con il corpo
intero e perfetto; altrimenti non sarebbe soddisfatto il desiderio dell'anima,
la quale tende all'unione con il corpo. Tale desiderio tutti crediamo con
certezza che debba essere appagato.
Inoltre è certo che la
risurrezione, appunto come la creazione, va annoverata fra le migliori opere di
Dio. Come dunque tutte le cose dal principio della creazione uscirono perfette
dalle mani di Dio, così dovrà avvenire anche nella risurrezione. Né ciò si deve
dire solo dei martiri, dei quali sant'Agostino afferma: "Non saranno senza
quelle membra: poiché la mutilazione non potrebbe non essere un difetto del
corpo; altrimenti quelli che furono decapitati, dovrebbero risorgere senza la
testa. Però rimarranno nelle loro membra le cicatrici della spada, più risplendenti
dell'oro e di qualsiasi pietra preziosa, come le cicatrici delle piaghe di
Cristo" (ibid.). Ciò si afferma con verità anche dei cattivi, anche se le
loro membra siano state amputate per una colpa personale; poiché l'acutezza del
dolore sarà in ragione delle membra che essi avranno.
Perciò una tale restituzione
delle membra non ridonderà a loro felicità, ma disgrazia e miseria, poiché i
meriti non vengono attribuiti alle membra, bensì alla persona alla quale sono
unite. A quelli che fecero penitenza saranno restituite per premio; a quelli
invece che aborrirono la penitenza, per supplizio.
Se i parroci considereranno
attentamente tutto questo, non mancheranno loro i fatti e i pensieri per
muovere e infiammare all'amore della religione gli animi dei fedeli, affinché
considerando i fastidi e le afflizioni di quaggiù, dirigano i loro ardenti
desideri verso la gloria beata della risurrezione, preparata per i giusti e per
i pii.
14 Immortalità dei corpi risorti
136 Rimane ora da far
comprendere ai fedeli che, sebbene per quanto ne costituisce la sostanza debba
resuscitare l'identico corpo che ha subito la morte, il suo stato però sarà
molto differente. A parte infatti le altre circostanze in questo sta la
differenza dei corpi risuscitati da quel che erano prima: mentre allora erano
soggetti alle leggi della morte, dopo richiamati a vita, a prescindere dalle
differenze tra buoni e cattivi, tutti saranno immortali. Questa meravigliosa
reintegrazione della natura fu meritata dalla grande vittoria che Cristo
riportò sulla morte, come ci insegnano le Sacre Scritture. Sta scritto infatti:
"Egli precipiterà la morte in sempiterno" (Is 25,8); e altrove:
"Sarò la tua morte, o morte" (Os 13,14). Spiegando tali parole,
l'Apostolo dice: "La morte, l'ultima nemica, sarà distrutta" (1 Cor
15,26). E in san Giovanni leggiamo: "D'ora in poi non vi sarà più la
morte" (Ap 21,4).
Era molto conveniente che il
peccato di Adamo fosse del tutto vinto per merito di Cristo nostro Signore, il
quale distrusse l'impero della morte. E questo è anche conforme alla divina
giustizia, perché i buoni potessero godere per sempre una vita beata; i cattivi
invece, dovendo scontare pene eterne, pur cercando la morte, non la potessero
trovare; desiderassero di morire, e la morte ostinatamente fuggisse loro (Ap 9,6).
Questa immortalità sarà comune ai buoni e ai cattivi.
15 Doti dei corpi risorti
137 I corpi redivivi dei
santi avranno fulgide e meravigliose facoltà, per le quali diverranno molto più
nobili di quello che furono. Le più notevoli sono quelle quattro, che son dette
"doti", e sono rilevate dai Padri, sulle orme dell'Apostolo.
La prima è l'
"impassibilità"; dono e dote, la quale farà sì che essi non possano
soffrire niente di molesto o essere colpiti da dolori o incomodi. Infatti non
potranno a essi nuocere né la violenza del freddo, né l'ardore del fuoco, né
l'impeto delle acque. "Viene seminato" dice l'Apostolo "nella
corruzione; risorgerà nella incorruzione" (1 Cor 15,42). Gli Scolastici la
chiamarono impassibilità invece che "incorruzione", per esprimere
quel che è proprio del corpo glorioso; poiché i beati non hanno l'impassibilità
in comune coi dannati, perché i corpi di questi, sebbene incorruttibili,
possono patire caldo, freddo e ogni dolore.
Viene poi lo
"splendore", per il quale i corpi dei santi rifulgeranno come il
sole. Lo attesta, in san Matteo, il nostro Salvatore: "I giusti
risplenderanno come il sole nel regno del loro Padre" (13,43). E perché
nessuno dubitasse di questa promessa, la confermò con l'esempio della sua
trasfigurazione (Mt 17,2). Questa dote l'Apostolo la chiama ora
"gloria", ora splendore. "Riformerà" dice "il corpo
nostro umile, rassomigliandolo al corpo del suo splendore" (Fil 3,21 ); e
di nuovo: "È seminato nella miseria, sorgerà nella gloria" (1 Cor
15,43). Di questa gloria vide un'immagine il popolo d'Israele nel deserto,
quando la faccia di Mosè, di ritorno dal colloquio avuto con Dio sul Sinai,
risplendeva talmente che i figli d'Israele non vi potevano fissare gli occhi
(Es 34,29). Questo splendore è un fulgore speciale che viene al corpo dalla
somma felicità dell'anima ed è come un riflesso della beatitudine di cui gode
l'anima: come la stessa anima diventa beata, in quanto su di essa si posa una
parte della felicità divina. Non si creda però che tutti si abbelliscano di tal
privilegio in ugual misura, come del primo; saranno, si, tutti egualmente
impassibili i corpi dei santi, ma non avranno un uguale splendore; poiché, come
assicura l'Apostolo, altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della
luna e altro lo splendore delle stelle. Una stella infatti differisce
dall'altra per lo splendore; così nella risurrezione dei morti (1 Cor 15,41).
A questa dote va congiunta
quella che chiamano "agilità", per cui il corpo sarà liberato dal
peso, che ora l'affatica e con grandissima facilità potrà muoversi verso quella
parte dove l'anima vorrà, così che nulla potrà esservi di più celere di quel
movimento, come insegnano apertamente sant'Agostino nella Città di Dio (13,18 e
20) e san Girolamo nel commento a Isaia (cap. 40). Perciò l'Apostolo dice:
"Viene seminato nella debolezza, risorgerà nella forza" (1 Cor
15,43).
A queste doti va aggiunta la
sottilità o "sottigliezza", la quale pone il corpo completamente
sotto l'impero dell'anima così da servirla con immediatezza, come mostrano le
parole dell'Apostolo: "Si semina un corpo animale, risorgerà un corpo
spirituale" (1 Cor 15,44). Questi sono quasi tutti i punti principali da
illustrare nella spiegazione dell'articolo.
16 Frutti salutari dell'articolo
138 Ma perché i fedeli
sappiano quale frutto possono ricavare dalla conoscenza di sì numerosi e grandi
misteri, si dovrà prima inculcare che dobbiamo ringraziare Dio, il quale ha
nascosto queste cose ai sapienti e le ha rivelate ai piccoli. Quanti uomini
infatti, illustri per prudenza o per singolare dottrina, non furono
completamente all'oscuro di questa verità così certa? L'averla dunque Dio
manifestata a noi, che non potevamo aspirare a comprenderla, ci deve fare
eternamente lodare la sua benignità e clemenza.
Con il meditare quest'articolo,
coglieremo anche il grande frutto che, nella morte di quanti per natura o
benevolenza furono a noi congiunti, potremo facilmente consolare sia gli altri
che noi stessi; consolazione di cui si servì l'Apostolo scrivendo ai
Tessalonicesi intorno ai defunti (1 Ts 4,13). Ma anche in tutti gli altri
affanni e disgrazie, il pensiero della futura risurrezione ci darà gran
sollievo nel dolore. Ricordiamo il santo Giobbe, il quale sollevava l'animo
afflitto e addolorato con questa sola speranza, che avrebbe finalmente potuto
contemplare nella risurrezione Iddio suo signore (Gb 19,26s).
Oltre a ciò, questo pensiero
sarà molto efficace nel persuadere i fedeli a mettere ogni diligenza nel menare
una vita retta, integra, pura da ogni macchia di peccato. Se infatti penseranno
che le immense ricchezze, successive alla risurrezione, sono preparate per
loro, facilmente s'innamoreranno della virtù e della pietà. D'altro canto
nessuna cosa potrà avere maggiore efficacia a sedare le passioni dell'animo e a
ritrarre gli uomini dal peccato, che ammonirli spesso di quali mali e dolori
saranno colpiti i cattivi che nell'ultimo giorno andranno alla risurrezione del
giudizio (Gv 5,29).
17 Articolo 12
LA VITA ETERNA
Significato dell'articolo
139 I santi Apostoli, nostre
guide, vollero chiudere il Simbolo, compendio della nostra fede, con l'articolo
riguardante la "vita eterna", sia perché dopo la risurrezione della
carne i fedeli non devono aspettare che il premio della vita eterna; sia perché
la felicità perfetta e piena di ogni bene deve essere sempre dinanzi ai nostri
occhi e apprendessimo che la mente e i pensieri nostri devono essere tutti
fissi in essa. Perciò i parroci, istruendo i fedeli, non lasceranno mai di
accenderne gli animi con il proporre loro i premi della vita eterna. Così tutto
quello che essi avranno insegnato, anche se sommamente grave a sopportare per
il nome cristiano, lo crederanno leggero e giocondo e diverranno più pronti e
alacri nell'obbedire a Dio.
18 La vita eterna è una beatitudine perpetua
140 Sotto queste parole, che
qui servono a spiegare la nostra beatitudine, sono nascosti molti misteri. E
perciò necessario spiegarli in modo che siano a tutti noti, secondo la capacità
di ciascuno. Si deve dunque far notare ai fedeli che la vita eterna significa
non tanto la perpetuità della vita, alla quale partecipano anche i demoni e gli
uomini cattivi, quanto la perpetuità della beatitudine, capace di soddisfare
appieno il desiderio dei beati. Così la intendeva quel dottore della Legge, che
nel Vangelo chiese al Signore nostro salvatore che cosa dovesse fare per
possedere la vita eterna (Mt 19,16; Mc 10,17; Lc 18,18), ossia: "Che cosa
devo fare per poter giungere a quel luogo dove è dato godere della felicità
perfetta?". In questo senso le Sacre Scritture intendono tali parole, come
si può osservare in molti luoghi (Mt 25,46; Gv 3,15; Rm 6,23).
19 Natura della beatitudine eterna
141 È stato dato appunto
questo appellativo a tale beatitudine, perché non la si credesse consistere in
cose materiali e caduche, le quali non possono essere eterne. Infatti questa
stessa parola "beatitudine" non poteva bene esprimere quel che si
voleva indicare, soprattutto perché vi sono stati certuni che, gonfi di fatua
sapienza, han posto il sommo bene in quelle cose che si percepiscono coi sensi.
Mentre queste periscono e invecchiano, la beatitudine non si può circoscrivere
con limiti di tempo; che anzi le cose terrene sono del tutto aliene dalla vera
felicità, dalla quale si allontana moltissimo chi è trasportato dall'amore e
dal desiderio del mondo. Sta scritto infatti: "Non amate il mondo, ne quel
che è nel mondo. Se qualcuno ama il mondo, in lui non è la carità del
Padre". E poco appresso: "II mondo passa e insieme con esso la sua
concupiscenza" (1 Gv 2,15.17). Questo dunque avranno cura i parroci di
fissare nella mente dei fedeli, per persuaderli a disprezzare le cose del mondo
e a non credere che si possa ottenere felicità quaggiù, dove non siamo
cittadini, ma ospiti (1 Pt 2,11).
Tuttavia anche in questa vita
potremo ben dirci beati per la virtù della speranza, purché, rigettando
l'empietà e i desideri mondani, viviamo con sobrietà, con giustizia e con
pietà, aspettando che si realizzi la speranza beata e la venuta della gloria
del grande Dio e di Gesù Cristo nostro salvatore (Tt 2,13).
Moltissimi però, i quali
credevano di esser sapienti, non avendo compreso queste cose, credettero
doversi cercare la felicità in questa vita; divennero stolti e caddero nelle
miserie più gravi (Rm 1,22).
Ma dal significato
dell'espressione "vita eterna" impariamo anche che questa felicità,
una volta raggiunta, non può più perdersi, come erroneamente alcuni supposero.
Infatti la felicità risulta dall'unione di tutti i beni, senza mescolanza di
alcun male: la quale felicità per appagare il desiderio dell'uomo, deve
consistere necessariamente nella vita eterna. Non potrebbe infatti il beato non
volere che gli sia dato di godere per sempre di quei beni che ha ottenuto. Se
dunque tale possesso non fosse stabile e certo, sarebbe tormentato
dall'angoscia del timore.
20 Ineffabilità della beatitudine eterna
142 Queste stesse parole
però, "vita beata", mostrano a sufficienza che la grandezza della
felicità dei beati nella patria celeste da essi solamente e da nessun altro può
esser compresa. Infatti se noi, per significare una cosa, facciamo uso di un
nome comune anche a molte altre, è chiaro che per esprimere esattamente quella
cosa manca la parola propria. Poiché dunque la felicità viene espressa con voci
tali che convengono egualmente ai beati e a tutti coloro che vivono una vita
eterna, si può allora capire che essa è una realtà troppo alta e preclara, per
poterne esprimere perfettamente la sostanza con una parola propria. Infatti
nelle Sacre Scritture si danno a questa beatitudine celeste moltissimi altri
nomi, come per esempio: "regno di Dio", "di Cristo",
"dei cieli", "Paradiso", "Città santa",
"nuova Gerusalemme", "casa del Padre" (Mc 9,46; At 14,21; 1
Cor 6,9; Ef5,5; 2 Pt 1,11; Mt 7,21; Le 23,43; Ap 3,12; 21,2.10). Tuttavia è
chiaro che nessuno di essi vale a esprimerne la grandezza.
21 La fede nella beatitudine promuove la pietà
143 I parroci non si lascino
qui sfuggire l'occasione di richiamare i fedeli, con la visuale dei premi tanto
grandi racchiusi nel nome di vita eterna, alla pietà, alla giustizia e a tutti
i doveri della religione cristiana. È noto infatti che si suole valutare la
vita tra i beni più grandi cui si tende per natura. A ragione quindi la suprema
felicità è stata significata mediante l'idea di vita eterna. Che se nulla è più
amato, nulla può esservi di più caro o di più giocondo di questa piccola nostra
vita piena di affanni, la quale va soggetta a sì numerose e varie miserie, che
si dovrebbe con più verità chiamare morte; con quale ardore dell'animo, con
quale impegno non dovremo desiderare la vita eterna che, distrutti tutti i
mali, contiene la ragione perfetta e assoluta di tutti i beni? Poiché, come
tramandarono i santi Padri, la felicità della vita eterna si deve definire come
liberazione da tutti i mali e acquisto di tutti i beni.
Circa i mali vi sono
chiarissime testimonianze nelle Sacre Scritture. E detto infatti
nell'Apocalisse: "Non avranno più né fame, né sete; né cadrà sopra essi il
caldo del sole, né altro ardore" (7,16). E di nuovo: "Asciugherà
Iddio dai loro occhi ogni lacrima e non vi sarà più morte, né lutto, né
lamento, né dolore, perché le vecchie cose sparirono" (ibid. 21,4). Invece
si avrà per i beati un'immensa gloria, con infinite specie di stabile letizia e
di godimento. Ma la grandezza di questa gloria non può essere compresa dall'animo
nostro, né può penetrare nel nostro spirito; sicché dovremo necessariamente
penetrare in essa, cioè nel gaudio del Signore, affinché da esso circonfusi,
sia soddisfatto perfettamente il desiderio del nostro cuore.
22 Duplice beatitudine: "essenziale" e "accessoria"
144 Quantunque, come scrive
sant'Agostino, sembri che possano essere enumerati più facilmente i mali di cui
mancheremo, che i beni e i piaceri che godremo (Sermo, 127, 2, 3), pure si
dovrà spiegare brevemente e con chiarezza quanto varrà a infiammare i fedeli
alla brama di conseguire quell'immensa felicità. Ma prima si dovrà notare la
distinzione, insegnata dai più autorevoli scrittori di argomenti
soprannaturali. Essi infatti stabiliscono che vi sono due generi di beni, di
cui uno spetta alla natura della beatitudine, l'altro ne discende. Per ragioni
pedagogiche, chiamarono i primi "beni essenziali", gli altri
"accessori".
23 Beatitudine essenziale
145 La beatitudine
sostanziale, che con un termine comune può dirsi "essenziale",
consiste nel vedere Dio e godere della sua bellezza; perché qui è la fonte e il
principio di ogni bontà. "Questa è la vita eterna" dice Cristo nostro
Signore "che conoscano te, solo vero Dio, e Gesù Cristo, che tu hai
mandato" (Gv 17,3). San Giovanni sembra voglia spiegare codesta frase
quando dice: "Carissimi, ora siamo figli di Dio; ma ancora non è manifesto
quel che saremo; sappiamo però che quando lo sarà, saremo simili a lui, poiché
lo vedremo quale è" (1 Gv 3,2). Il che vuoi dire che la beatitudine consiste
in queste due cose: che vedremo Dio come è nella sua natura e nella sua
sostanza e che diverremo come dei. Infatti chi gode di lui, sebbene ritenga la
propria sostanza, riveste tuttavia una forma mirabile e quasi divina, in modo
che sembri più un dio che un uomo.
Come poi questo possa
avvenire si spiega dal fatto che ciascuna cosa è conosciuta o per la sua
essenza o per una sua immagine che la rappresenti. Ma poiché non vi è nessuna
cosa simile a Dio, per la cui sola somiglianza si possa giungere alla perfetta
conoscenza di lui, ne segue che nessuno può vedere la natura ed essenza di lui,
se la stessa essenza divina non si congiunge a noi. Questo vogliono significare
le parole dell'Apostolo: "Ora vediamo attraverso uno specchio, in enigma;
allora invece, faccia a faccia" (1 Cor 13,12). Quando dice in enigma, come
spiega sant'Agostino, intende un'idea o immagine adatta a far conoscere Dio (De
Trinit, 15, 9). Lo stesso mostra chiaramente san Dionigi, quando dice che per
nessuna sembianza di cose inferiori si possono conoscere quelle superiori (De
div. nomin., cap. 1). Infatti con la sembianza di nessuna cosa corporea si può
conoscere l'essenza e la sostanza di ciò che non ha corpo, specialmente se
consideriamo che le idee o immagini delle cose devono essere meno materiali e
più spirituali delle cose stesse, che rappresentano. Lo possiamo facilmente
constatare nella conoscenza di tutte le cose. Ma poiché è impossibile che di
una cosa creata esista un'idea così pura e spirituale, quale è Dio stesso, da
una tale immagine non potremo mai conoscere perfettamente l'essenza divina. Si
aggiunga che tutte le cose sono circoscritte da determinati limiti di
perfezione, mentre Dio è infinito e nessuna somiglianza di cosa creata può
racchiudere la sua immensità.
Non rimane dunque altro modo
per conoscere l'essenza divina che essa stessa si congiunga a noi, innalzando
in una maniera meravigliosa più in alto la nostra intelligenza; cosi diveniamo
idonei a contemplare la bellezza della sua natura. Questo lo otterremo con il
lume della gloria, quando, illuminati dal suo splendore, vedremo nel suo lume
il vero lume di Dio; poiché i beati sempre intuiranno Dio presente. Con questo
dono, il più grande e il migliore di tutti, fatti partecipi i beati
dell'essenza divina, godono la vera e permanente beatitudine (2 Pt 1,4). E noi
dobbiamo crederlo con tanta certezza, che è perfino definito nel Simbolo dei
Padri (niceni), doverla noi per benignità divina aspettare con sicura
speranza. Vi si dice infatti: "Aspetto
la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà ".
Queste cose sono del tutto
divine, né possono essere spiegate a parole o comprese con il pensiero.
Nondimeno possiamo scorgere un'immagine di questa beatitudine anche nelle cose
percepite dai sensi. Come il ferro, se accostato al fuoco, assimila il fuoco e,
sebbene la sua sostanza non muti, tuttavia sembra qualche cosa di differente,
cioè fuoco, allo stesso modo quelli che sono ammessi alla gloria celeste,
infiammati dall'amore di Dio, vengono così trasformati, pur non cessando di essere
ciò che sono, da poter dire che differiscono da quelli che sono in questa vita,
molto più che il ferro incandescente dal ferro normale (Anselmo, Lib. de
simil., cap. 56). Per dirla in breve: la somma e assoluta beatitudine che
diciamo essenziale deve porsi nel possesso di Dio. Infatti cosa può mancare per
la felicità perfetta a chi possiede Dio ottimo e perfettissimo?
24 Beatitudine accidentale
146 Alla beatitudine
essenziale s'aggiungono degli abbellimenti comuni a tutti i beati che, essendo
meno lontani dalla ragione umana, sogliono commuovere ed eccitare con maggior
forza gli animi nostri. A questo genere appartengono quelli a cui sembra
alludere l'Apostolo scrivendo ai Romani: "Gloria e onore e pace a ognuno
che fa il bene (Rm 2,10). Infatti i beati non godono solo di quella gloria, che
mostrammo essere in fondo la beatitudine essenziale di Dio, ovvero congiunta
strettissimamente con la sua natura; ma anche di quella che risulta dalla
conoscenza chiara e precisa che ciascuno dei beati avrà dell'eccellente e
splendida dignità degli altri. Ma pure quanto grande non si dovrà stimare
l'onore che Dio loro concede, essendo essi chiamati non più servi, ma amici,
fratelli e figli di Dio? Perciò con queste amorosissime e onorevolissime parole
il nostro Salvatore inviterà i suoi eletti: "Venite benedetti dal Padre
mio, prendete possesso del regno preparato per voi" (Mt 25,34). Cosicché a
buon diritto si può esclamare: "I tuoi amici, o Dio, sono stati troppo
onorificati" (Sal 138,17). Ma saranno lodati anche da Cristo signore
dinanzi al Padre celeste e ai suoi angeli.
Inoltre, se è vero che la
natura ingenerò in tutti gli uomini il desiderio di essere onorati da quelli
che sono illustri per sapienza, ritenendosi che tali attestati di
considerazione siano le più efficaci prove del merito, quanto non dovrà
credersi grande la gloria dei beati, professando l'uno verso l'altro la stima
più profonda.
Sarebbe infinita
l'enumerazione di tutti i godimenti di cui sarà ripiena la gloria dei beati e
non possiamo immaginarceli neppure. Tuttavia i fedeli devono persuadersi che di
tutto quel che di giocondo può toccarci o desiderarsi in questa vita, sia che
si riferisca alla conoscenza dell'intelletto, sia alla perfezione del corpo, di
tutto la vita beata dei celesti ridonderà, sebbene in un modo più alto di quel
che l'occhio possa vedere, l'orecchio possa udire o che comunque possa
penetrare nel cuore dell'uomo, come afferma l'Apostolo (2 Cor 2,9). Il corpo,
che prima era grossolano e materiale, quando nel cielo, tolta la mortalità,
sarà diventato tenue e spirituale, non avrà più bisogno di alimenti; l'anima
poi si satollerà di quel pascolo eterno di gloria, che sarà offerto a tutti
dall'Autore di quel grande convito (Lc 12,37).
Chi mai potrà desiderare
preziose vesti ovvero ornamenti regali per il corpo lassù dove non si avrà
bisogno di tali cose e tutti saranno coperti di immortalità e di splendore,
insigniti della corona della gloria eterna? Ma se è parte della felicità umana
anche il possesso di una casa vasta e sontuosa, che cosa si può concepire di
più vasto e sontuoso dello stesso cielo, che è illuminato in ogni parte dallo
splendore divino? Perciò il profeta, ponendosi dinanzi agli occhi la bellezza
di tale dimora e ardendo della brama di giungere a quella beata sede, dice:
"Come sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore delle virtù! Anela e si
strugge l'anima mia per il desiderio degli atri del Signore. Il mio cuore e la
mia carne esultano nel Dio vivente" (Sal 83,2s).
25 Come si acquista sicuramente la beatitudine
147 I parroci devono
ardentemente desiderare e cercare con ogni studio che questo sia il volere di
tutti i fedeli, questa la voce comune di tutti, "Poiché nella casa del
Padre mio" dice il Signore "vi sono molte dimore (Gv 14,2) nelle
quali saranno dati premi maggiori e minori, secondo che ognuno avrà meritato.
Infatti chi semina con parsimonia, mieterà con parsimonia (2 Cor 9,6) e chi
semina largamente mieterà pure largamente". Perciò non solo spingeranno i
fedeli verso la beatitudine, ma li avvertiranno spesso che il modo certo per
ottenerla è di istruirsi nella fede e nella carità, perseverando nella
preghiera e nella salutare frequenza dei sacramenti, esercitandosi in tutte le
opere caritatevoli verso il prossimo. Allora la misericordia di Dio, il quale
preparò quella gloria beata a chi lo ama, farà sì che si avveri un giorno il
detto del profeta: "Starà il mio popolo nella bellezza della pace, nei
tabernacoli della fiducia e nella quiete opulenta" (Is 32,18).
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